Tornai nel posto delle fragole quando capii che non è mai tardi per farlo.
Oppure, per dirla con Marion Post, “Mi chiesi se un ricordo è qualcosa che si ha o qualcosa che si è perduto”. Difficile fare meglio di Woody Allen per dare il senso di uno dei grandi film di Ingmar Bergman, e rassicurante affidarsi al regista newyorkese e all’ultima battuta del personaggio centrale del suo Un’altra donna per parlare di Il posto delle fragole, a più di sessant’anni dalla sua realizzazione. Non è forse Marion Post la versione femminile di Isak Borg, il grande vecchio cui Bergman consegnò nelle poche settimane di stesura della sceneggiatura del film le proprie iniziali (I. B.), la sua persona e il peso dei rimpianti che già aveva a nemmeno quarant’anni?
Il posto delle fragole è disponibile in versione restaurata su RaiPlay, nel cofanetto Sinfonia d’autore che raccoglie Monica e il desiderio, Il settimo sigillo, Luci d’inverno e Persona, diretti da Bergman fra il 1953 e il 1966, e il documentario Bergman 100: La vita, i segreti, il genio, realizzato da Jane Magnusson nel 2018 per il centenario della nascita dell’autore svedese. Proprio il documentario individua nel 1957, anno di uscita sia del Settimo sigillo sia del Posto delle fragole, il momento chiave della lunga vita artistica di Bergman, attivissimo in quegli stessi mesi anche a teatro oltre che nella realizzazione dei due titoli più emblematici della sua filmografia. Brevi, novanta minuti ognuno, affrontano entrambi il tema della morte, l’uno in una glaciale partita a scacchi fra un cavaliere e la Signora, l’altro con una commovente partita a nascondino fra un anziano e il suo passato. Da una parte la paura razionale della fine, dall’altra l’urgenza inconscia di venire a patti con ricordi ed errori di una vita.
La vita è quella di Isak, 76enne “pedante e solo”, come da amara definizione di sé, prossimo a ricevere una laurea ad honorem in Medicina a coronamento di un’esistenza passata per sua stessa ammissione trascurando famiglia e affetti per il lavoro, come fatto da Bergman per il cinema. È l’altro lui, quello che sente di aver sbagliato tutto, a fargli visita in sogno con il suo carico di angoscia, e a spingerlo a coprire il tragitto da Stoccolma, dove Isak vive, all’università di Lund, dove riceverà il premio, in macchina invece che in aereo, ampliando la giornata per un tempo ed uno spazio indefiniti, pronti ad accogliere ogni sentimento, ricordo e moto dell’anima del vecchio. Il road-movie interiore che ne segue tenta ancora chi si trova a scriverne, a ben sei decadi dall’uscita, a soffermarsi su ogni singola scena immaginata e portata sullo schermo da Bergman, perché il calore del racconto e dei suoi episodi è così vero da scuotere con precisione anche l’inconscio di chi guarda. E che precisione: tenera, delicata, clamorosa. Se per Bergman il cinema è stato “un mezzo per esprimere ricordi, esperienze, tensioni e situazioni”, per lo spettatore vedere o rivedere Il posto delle fragole è immergersi in quel “vocabolario di immagini per gli stati interiori dell’essere umano inventato da Bergman”, come Allen definisce la poetica del suo regista di riferimento, e la scoperta di saperlo anche proprio.
È la possibilità di ritrovare quello che non si è mai saputo di desiderare davvero, vedendolo sbucare fuori da dietro un albero della casa della giovinezza con vestiti nuovi e un diverso taglio di capelli, dargli un passaggio nella propria macchina fino a quando vorrà restarci sopra, e sentirgli dire al commiato che si è stati il grande amore della sua vita nonostante lo si sia lasciato andare. O l’accorgersi di quanto si sia dato al prossimo nell’esercizio di quella professione cui si è sacrificato comunque troppo, e trovarsi all’improvviso ad occuparsi di una mole di ricordi, proiezioni e sensi di colpa cui è possibile dare un significato nuovo, orientato al cambiamento. Anche a 70 e passa anni. Ed è l’uscire dal calvario degli errori commessi ritrovando le proprie origini, mentre le si guarda sorriderci e salutarci durante una giornata di festa su un lago, rivissuta quarant’anni dopo il suo reale svolgimento. Aprendosi all’indulgenza verso di sé, dopo averla sempre sottratta soprattutto alle persone più vicine, con cui è tuttavia possibile recuperare i rapporti da noi stessi negati.
Come fa Isak guardando i suoi genitori ancora giovani in riva al lago, in quel primo piano che Bergman definì come il più bello di tutto il suo cinema e affidato al quasi ottantenne Victor Sjöström alla sua ultima interpretazione, in attesa della nascita di un bambino, figlio dell’unico figlio di Isak, la cui storia è ancora tutta da scrivere.