Nel 753 a.C. una violenta esondazione del Tevere stravolge l'equilibrio della terra e, (in)consapevolmente, il destino di un popolo: i due fratelli Romolo e Remo, trascinati dalla furia delle acque, vengono catturati dai guerrieri di Alba e costretti a partecipare a sanguinose lotte per la sopravvivenza. Messi uno contro l'altro, i due pastori scatenano una rivolta e scappano nella foresta con gli altri prigionieri e una vestale, portatrice del fuoco sacro e legame diretto tra umano e divino: da qui nascerà il mitico scontro fratricida che porterà alla fondazione di Roma, la capitale dell'impero più grande e potente mai costruito dall'uomo.

L'ambizione smodata che guida la mano di Matteo Rovere nella realizzazione de Il primo re non è solo quella di mostrare le potenzialità del cinema italiano ai suoi massimi livelli, ma anche e soprattutto quella di confrontarsi senza esitazioni con la potenza comunicativa del mito, inteso come principio e fine di ogni storia mai raccontata. La faida tra Romolo e Remo non ci viene presentata infatti come mera celebrazione di un racconto fondativo nazionale, ma come parabola morale sulla nascita della civiltà e sui primi approcci dell'uomo con il potere e il soprannaturale. I barbari primitivi che popolano il Lazio, al pari delle scimmie di 2001 Odissea nello spazio, trovano nella violenza l'unico strumento adatto a compiere il salto evolutivo necessario per sopravvivere in un mondo spietato e tribale, dove la natura si accanisce sugli uomini superandoli in brutalità, quasi come se volesse difendersi dalla rovina che verrà.

L'essenzialità di questo feroce racconto epico lo espone a una molteplicità di chiavi di lettura – riflessione sulla nascita dell'imperialismo romano e sul ruolo della violenza nella nascita della società civile – ma quella più rilevante è certamente la sempiterna conflittualità tra umano e divino, espressa in epigrafe dalle parole di William Somerset Maughan. Lo scontro tra i due fratelli protagonisti è quello tra spiritualità e autodeterminazione: se Romolo crede ciecamente nell'operato di forze invisibili e imperscrutabili, Remo combatte per essere l'unico artefice del proprio destino e vendicarsi degli dèi colpevoli della sua barbara condizione. Altrettanto interessante è l'identificazione del divino con il femmineo, un'entità altrettanto indecifrabile poiché portatrice di conoscenza e verità troppo grandi per essere comprese dall'uomo; Romolo, Remo e la vestale Satnei sono dunque le pietre angolari su cui si sorreggerà l'impero romano, e le interpretazioni di Alessio Lapice, Alessandro Borghi e Tania Garribba sanno conferire la giusta dose di ferinità e titanismo ai tre protagonisti.

A lungo bisognerebbe discutere del lavoro impeccabile di tutto il comparto tecnico del film, dalla sublime fotografia in luce naturale di Daniele Ciprì ai costumi di Valentina Taviani, ma ciò che conta alla fine di tutto è il punto di non ritorno che Il primo re segna nel panorama cinematografico nazionale. Dopo le scommesse vinte con Veloce come il vento e la trilogia di Smetto quando voglio in veste di produttore, Matteo Rovere ribadisce una volte per tutte l'importanza cruciale del cinema di genere e le sue infinite potenzialità autoriali, mostrando al pubblico italiano uno spettacolo epico che nulla ha da invidiare alla concorrenza hollywoodiana.