Tutti noi abbiamo sognato di poter rivivere un giorno della nostra vita, uno di quelli indimenticabili, di cui ricordiamo ogni particolare e che ha cambiato per sempre il corso delle nostre esistenze. È questo lo spunto di La belle époque di Nicolas Bedos, presentato alla Festa del cinema di Roma e in sala dal 7 novembre. Il fumettista Victor è infelicemente invecchiato e vive con una moglie psicanalista che cerca di mantenersi giovane a tutti i costi: lui rifiuta ogni tecnologia mentre lei ha lasciato i pazienti per creare un'app di analisi online. Dopo quarant’anni di matrimonio i due sono ai ferri corti, e Victor si ritrova cacciato di casa. Decide così di accettare uno strano regalo fattogli dal figlio: un regista metterà in scena per lui un momento del passato. L’uomo non ha dubbi: il 16 maggio 1974, giorno in cui in cui conobbe in un bar di Lione la futura moglie.
A differenza dei vari Ritorno al futuro e Ricomincio da capo, qui il passato non è reale ma solo ricostruito in studio da un regista maniacale e dall’ego spropositato in cambio di una cospicua somma di denaro, e la bellissima ragazza di fronte e a noi non è nient’altro che un’attrice, magari schizofrenicamente innamorata dell’uomo dietro la macchina da presa. Non siamo in un Truman Show, e appare da subito evidente che per quanto perfetto, il ricordo ricostruito non è che la pallida imitazione di qualcosa di irripetibile. La messa in scena ha però la capacità di riportare alla luce sentimenti sopiti, di ricreare uno storyboard preciso e dettagliato di un’emozione passata.
Un ritmo forsennato e un montaggio perfetto danno forza alla bella sceneggiatura di Bedos, piena di momenti e battute folgoranti, capace di mettere insieme con la giusta misura romanticismo e humour “scorretto”. A sostenerla una squadra di interpreti perfetti, capitanati dal duo Daniel Auteuil-Fanny Ardant, protagonisti dei più credibili litigi di coppia visti recentemente sullo schermo. E pur facendo leva su quell’effetto nostalgia che sembra ormai aver invaso i nostri schermi, La belle époque riesce a tesserne dall’interno una divertita e sottile critica. Se la descrizione di questi tempi moderni ipertecnologici e pieni di divieti, in cui c’è sempre un computer che ti dice cosa fare, sembra nascondere un inno alla libertà degli anni ’70, il film ne denuncia però l’idealizzazione a posteriori. Una ricostruzione falsata, edulcorata dal filtro bellezza dei ricordi di gioventù, dal cinema di Lelouch e dalla musica di Billie Holiday, di un mondo “dove lo stupro non era reato, era impossibile abortire e sembrava di vivere in un enorme posacenere”.
A pronunciare queste parole rivelatrici è la meravigliosa Fanny Ardant, realissima ed eterea al tempo stesso, capace quanto entra in scena di rendere chiaro, con il suo magnetismo, il suo sguardo, il suo sorriso, quanto la realtà, pur imperfetta e difficile, sia migliore di qualsiasi ricostruzione. Una conclusione da Ready Player One analogico, dove la sola nostalgia che abbia davvero valore è quella delle emozioni.