Il rito di Ingmar Bergman è un claustrale kammerspiel che racconta il disperato giro di vite di tre attori di teatro inquisiti per oscenità da un giudice in un ambiente fuori dal tempo, illuminato da un crudele e tagliente bianco e nero. Dalla disperata cadenza liturgica di Luci d’inverno alla blasfemia di un laboratorio teatrale che esplode improvvisamente ne Il rito, Ingmar Bergman si spinge ancora più in profondità nell’analisi dell’artificialità e dello straniamento umani, utilizzando riprese claustrofobiche e un linguaggio allusivo che rimandano a una profonda riflessione sulla degradazione fisica e morale dell’individuo.

Più che film kafkiano, però, Il rito è un groviglio di temi filosofici che dischiudono gli alienanti scompensi clinici della modernità. Tra il Pirandello delle maschere e il Baudelaire dell’essenza del riso, il film di Bergman da lui prodotto e trasmesso nel 1969 sulle reti scandinave, ha un movimento metateatrale e letterario che scandisce, attraverso un’ironia dissacrante, l’ineluttabile orrore delle relazioni sociali e l’allegoria, in chiave grottesca e in forma di teorema, della scure censoria nei confronti dell’arte e in primis dell’ars dicendi.

Essa, infatti, sotto forma di spigoloso monologo o compiaciuta autoanalisi, conduce al paradigma della solitudine dell’artista e a uno scollamento etico tra l’essere e l’apparire. Espressione del logos, com’era nella tradizione filosofica antica, la parola, rovesciata in provocazione, diatriba e poi deflagrante in conflitto verbale, esprime il disagio dell’incomunicabilità tra personaggi cinici e abietti, in una situazione-paradigma da cui è impossibile uscire indenni. Diversamente da precedenti lavori come Il settimo sigillo, in cui la dicotomia puri-reprobi illuminava un cammino di perfezionamento nella predestinazione, qui ogni personaggio è accomunato dalla smania narcisistica di inabissare se stesso e gli altri in un carnaio orale di inusitata ferocia.

Sia i tre attori protagonisti messi alla sbarra, sia il temibile giudice, ordiscono trame verbali che, capovolgendo i ruoli imposti come in una studiata pièce teatrale, scambiano d’ordine vittime e carnefici senza che sia possibile distinguere percorsi di crescita personale. Emblematico di tali rapporti disfunzionali è il torbido triangolo amoroso in cui il marito Hans tollera, per la paura di restare solo, i goffi tentativi compiuti dall’amico Sebastian di impossessarsi del corpo desiderante e delle nevrosi della moglie Thea: il capocomico incarna la rassegnazione esistenziale, l’amico-amante il dionisiaco tormento, la donna il desiderio frustrato.

Organizzato in nove scene concatenate dalla colonna sonora che anticipa il motivo presente nella scena successiva, Il rito si serve di un escamotage pretestuoso – l’accusa di comportamenti osceni alla compagnia ristretta – per inscenare una spietata pantomima che mette i quattro personaggi gli uni contro gli altri; il quinto, interpretato da Bergman, è invisibile agli spettatori perché è il prete rinchiuso nel confessionale intento ad ascoltare, ma non ad assolvere, il giudice tonante.

Il rito nacque da un esperimento televisivo che lo stesso regista sconsigliò a “tutte le persone anche minimamente impressionabili” perché è un film nichilista, un’opera che mette al bando la parola empatica e dichiara il fallimento della condivisione tra gli esseri umani, senza toni apologetici; se nulla serve a redimere e nessuna morale ne scaturisce, allora la performance finale dei tre attori mascherati diventa a tutti gli effetti un artificio retorico che scardina la convenzionalità del mezzo artistico, quasi un workshop di body art a carattere persecutorio e di totale autoreferenzialità.

La “smorfia tragica” di cui parla Pirandello nel Saggio sull’umorismo è speculare all’abiezione che produce il “riso satanico” secondo Baudelaire, tratto distintivo che è conseguenza della propria pretesa superiorità e di una distanza abissale tra noi e gli altri. Il rito si chiude proprio così, con l’immagine di Thea che ride, nascosta dietro la maschera.