L'antologia critica su Il settimo sigillo di Ingmar Bergman non può che partire dallo spettatore più acuto e influente del regista, ovvero Woody Allen: "Il settimo sigillo è sempre stato il mio film preferito. Se io dovessi descriverne la storia e tentare di persuadere un amico a vederlo con me, direi: si svolge nella Svezia medievale flagellata dalla peste, ed esplora i limiti della fede e della ragione, ispirandosi a concetti della filosofia danese e tedesca. Ora, questa non è precisamente l’idea che ci si fa del divertimento, eppure il tutto è trattato con tale immaginazione, stile e senso della suspense che davanti a questo film ci si sente come un bambino di fronte ad una favola straziante e avvincente al tempo stesso".
Ed ecco gli altri estratti scelti per i nostri lettori.
Ogni piano abbina l'ombra e la luce secondo un dosaggio quasi magico, e sarebbe decisamente bravo chi riuscisse a fissarne una linea di divisione. Piani allo stesso tempo fluidi e solidi, che si consumano senza fine, sotto i nostri ocelli, in movimenti immobili. Le origini teatrali di Bergman sono sensibili, e tuttavia lo ieraticismo delle scene e la composizione plastica delle immagini possiedono lo charme affascinante dei quadri che nascono dal fumo dei sogni. Nessuna ellissi: tutto si mostra. Ma tutto comincia al di là delle parole e delle figure, uno splendore nascosto si svela celandosi.
Jean Mambrino, "Cahiers du cinema", n. 83, maggio 1958
Ossessionato dalle grandi tematiche umane, Bergman scrive e dirige egli stesso i suoi film. Da ciò derivano la virulenza del tratto, la comicità e l'amarezza, l'importanza degli oggetti, l'amore della gente di teatro, il disprezzo doloroso e collerico per le donne, l'immensa pietà per l'uomo, a seconda dei casi gloria e zimbello del mondo, l'uomo che "da qualunque parte si giri ha sempre le chiappe dietro di lui". Il settimo sigillo, un film tanto importante in un'epoca che ha perduto il senso del sacro, che bisogna, dopo averlo visto, rivederlo almeno una volta per scoprirne tutte le bellezze, tutte le promesse, tutte le radici, quelle che vanno dal cielo vuoto al cuore dell'uomo, dal ventre della donna all'assenza di Dio.
Simone Dubreuilh, "Libération", 23 aprile 1958
È un film completamente indigeno, con qualcosa del sofisticato Stiller ma anche dell'elementare senso di culto proprio dello stile di Sjöström. Al tempo stesso è una matura espressione dei paurosi incubi dell'infanzia, riprodotti sotto forma di orrorifici dipinti nei muri delle chiese medievali dove il padre di Bergman recitava sermoni durante battesimi o funerali. [...] Gli archetipici simboli sono appropriati per dare al film chiarezza e la sua caratteristica di decontestualizzazione temporale e di conseguenza la sua rilevanza contemporanea. I cacciatori di streghe, i penitenti, i saccheggiatori sono ancora tra di noi; ognuno si rivela isolato, sordo, soffocato dall'insicurezza, mentre un uccello si libra in volo e lancia alto il suo avvertimento - un presagio dell'età della bomba H. La Morte non risponde. Rimane un freddo, colto e tranquillo vecchio Gentiluomo, che cammina attraverso un mondo di solitudine. [...] Nel film vengono poste domande, accettati i fatti; l'artista innocente (attore itinerante) ha delle visioni e il futuro sarà suo. Bergman risponde ciò che può, sebbene rimangano alcuni misteri nel suo film, porte chiuse sulle quali egli mantiene gelosamente il proprio sguardo; ma buona parte delle qualità della pellicola sono celate proprio in ciò che non ha spiegazione, tra le oscure tensioni e gli irrisolti problemi.
Peter John Dyer, "Sight and Sound", primavera 1958
La tecnica di ripresa di Bergman è pienamente adeguata al suo tema. A parte un'inquadratura abbagliante, ottenuta chimicamente, nella sequenza iniziale, le sue immagini medievali sono chiare e solide, nella miglior tradizione del cinema realistico. Bergman raggiunge i suoi momenti migliori nelle scene intime in cui la sua camera, sempre in movimento, ma senza nessuna intrusione fastidiosa, crea la tensione, prima che il montaggio la sfrutti in un momento successivo. Si è sempre consapevoli del contesto pieno di significati dei volti nelle loro reazioni alle incertezze che devono affrontare. Bergman indulge alle dissolvenze sul sole, endemiche del cinema svedese, all'apertura delle inquadrature nel senso opposto a quello dell'orologio, inventata da Hitchcock, ma che egli sviluppa in modo particolare in parecchi suoi film. In questo caso il mantello nero della Morte dev'essere stato per lui una tentazione irresistibile. Il montaggio complessivo di Bergman mantiene un continuo fluire d'immagini per creare una progressione visuale per lo sviluppo dì ciascun intreccio successivo. Il simbolo plastico del teschio ricompare in ogni inquadratura ripreso da un diverso angolo espressivo, e la Morte stessa non ripete mai la coreografìa dei suoi ingressi e delle sue uscite.
Andrew Sarris, "Film Culture", n. 19, 1959
Il libro dell'Apocalisse di San Giovanni è un seguito di visioni. Ora, Bergman stesso ci spiega che egli ebbe, in qualche modo, la visione del suoi film, "contemplando le scene riprodotte nei dipinti delle chiese medioevali". Se la sua visione non è d'origine celeste, essa risale tuttavia ad una sorgente misteriosa, quella della sua infanzia. E la ricreazione cinematografica di questa visione possiede la stessa costruzione del libro dell'Apocalisse. Nella visione apocalittica si parla molto di Babilonia, "la grande prostituta", la cui caduta è sottolineata con evidenza. Contemporaneo di Nerone, San Giovanni, per mezzo di questa caduta, significava quella di Roma e del suo crudele imperatore. Nello stesso modo, e non c'è nemmeno bisogno di estrapolarlo, poiché Bergman l'ha dichiarato, Il settimo sigillo descrive, per mezzo della paura della peste, il timore fondamentale della nostra epoca: quello della guerra atomica. [...] Ossessionato dalla rappresentazione della Morte negli affreschi del Medioevo, Bergman ha spesso posto nei suoi film questo problema che qui egli inserisce in un contesto religioso, quello della sorgente stessa della sua ossessione. [...]
La luce che bagna il film, né nera, né bianca, ma filtrante attraverso tutti i gradi di grigio, è l'elemento dominante della composizione interna dei piani, strutturati d'altra parte, in uno spirito teatrale, attorno a una stilizzazione del gioco degli attori e al valore simbolico dei gesti e degli avvenimenti.
Jaques Siclier, Ingmar Bergman, Éd. Universitaires. Parigi 1960
Il tema fondamentale: la fine del mondo. La peste, nel pensiero del regista, simboleggia la bomba atomica. Il crociato, come Faust, vorrebbe sapere tutto prima di morire; ma la morte, cieco strumento della fatalità, non sa nulla, non può rispondere. [...] La famiglia dei due comici, con il loro bambino e il carrozzone: simbolo della continuità della vita, se il film dev'essere interpretato in maniera ottimistica; della continuità dell'illusione, se il pensiero di Bergman ci apparirà offuscato da tristi presagi. [...] La sua simpatia va tutta agli uomini: il crociato nobile e affettuoso; lo scudiero, chiaro e intelligente; il pagliaccio, sorridente e visionario. Rappresentano, rispettivamente, la preoccupazione metafisica, il razionalismo, la fantasia.
Tullio Kezich, "Letteratura", 1960, nn. 43/45
Simboli e allegorie visioni e meditazioni, tutto ciò conterebbe poco se non fosse portato sul piano della poesia. Non è un artista estetizzante né decadente, Bergman è un poeta. I simboli non raggelano l'ispirazione, i concetti non inaridiscono l'umanità. Tutto concorre a un altissimo risultato espressivo quale, non soltanto al cinema, si realizza raramente ai giorni nostri: la splendida qualità degli attori, la meravigliosa forza figurativa, la funzionalità esatta delle musiche, l'ammirevole sobrietà del montaggio, la rinuncia a ogni facile effetto. Quel che più importa, è la verità di questi personaggi.
Morando Morandini, "La Notte", 14 gennaio 1960
La stessa Morte non sa nulla di Dio. Il Diavolo non esiste che per quelli che vogliono crederci e per quelli che lo combattono: la piccola strega resta sola sul rogo: "Noi vediamo quello che ella vede e la nostra impotenza è la stessa". Bergman condivide senza dubbio queste inquietudini, come il Cavaliere egli rifiuta di pensare che tutto si risolva senza una spiegazione, nel nulla. [...] Bergman denuncia certo una concezione collettiva della religione, e il suo seminarista bugiardo e bandito morrà di peste, Le risposte non gli sembrano altro che individuali, e in questo Il settimo sigillo è certamente un'opera luterana. Tuttavia, un altro atteggiamento è possibile, quello dei saltimbanchi, con la loro semplicità, che accettano senza sforzo un ingenuo soprannaturale.
[...] Mai statici, personaggi e oggetti appaiono come ripuliti sullo schermo, senza l'estetismo pittorico di un Dreyer. [...] I movimenti di macchina sono di una disinvoltura stupefacente, il cui segreto sembra stare ad un tempo nel montaggio e nella precisione con cui si spostano gli attori.
Francis D. Guyon, "Premier Pian" 1964, n. 34, 1964
Non sussiste più il solo lato del vuoto assoluto come essenza. Se la partita metafisica con la Morte è per Block a priori perduta, non per questo egli rinuncia a vivere sino in fondo la sua esperienza di uomo; non resta passivo e sfiduciato dinanzi al nulla della morte, ma anzi l'affronta, le lancia la sua sfida al gioco; e approfitta del 'rinvio' così concessogli, del tempo che gli rimane, per 'cercare' e 'rendersi utile' [...]: proprio questa diventa anzi ora la sua vera 'crociata', la lotta non più per l'esteriorità di un nudo 'sepolcro', ma per lo spirito stesso del divino, vissuto in profondo, in quanto "intendere rettamente Dio", dice Lutero, "significa farne l'esperienza, provarlo, sentirlo". E mentre così la vita riacquista un senso come processo spirituale di espiazione, o auto-esame critico, il mondo oggettivo, come non-spirituale, è distrutto: la peste, "punizione del cielo", vi va seminando lutti e stragi, preannuncia il giorno del giudizio. [...] In questo senso Il settimo sigillo può dirsi realmente 1''apocalisse' mondana di Bergman [...]. Impotenza dell'uomo senza grazia, peccato, timor di Dio, macerazione interna e ansia di salvazione personale.
Guido Oldrini, La solitudine di Ingmar Bergman, Parma, Guanda, 1965, pp, 51-70
Il film è una sorta di 'mistero medioevale' ricchissimo di motivi spiritualistici, di una coerenza espressiva addirittura stupefacente. È infatti quasi incredibile che Bergman sia riuscito ad equilibrare perfettamente il tono mistico delle sequenze accentrate sulla figura del crociato con quella di carattere grottesco accennata sui saltimbanchi. Una profonda pietà umana vieta a Il settimo sigillo di cadere nella estraneità di quel frigido intellettualismo che aveva costruito il maggiore particolare per le precedenti opere di Bergman. Questa volta la ricchezza di motivi spirituali dell'autore, che vanno dalla drammatica conoscenza della limitata condizione dell'uomo alla sua ansia di incontro con l'Essere, dal rifiuto della fredda interpretazione razionalistica dei Mistero all'angoscia per la fede perduta, hanno raggiunto una cruda intensità drammatica che sembra placarsi nel finale del film in una sorta di virile accettazione del Mistero incompiuto dell'esistenza dell'uomo. Il film ha uno splendore figurativo unico: la composizione figurativa di assoluta perfezione, trae risalto da una maestria fotografica e luministica in cui si avverte il peso di una tradizione pittorica e culturale di altissimo livello. E l'intensità drammatica delle varie inquadrature trae eccezionale rilievo dalla coerenza stilistica e dalla forza espressiva di un montaggio che realizza una assoluta perfezione di ritmo.
Anche la presentazione degli interpreti è addirittura miracolosa per capacità espressiva, equilibrio e sobrietà di tono, coerenza di insieme: basti pensare alla figura della ragazza costantemente muta in cui Bergman ha voluto identificare una sorta di testimone silente dei disperato dramma dell'uomo. Non a caso infatti essa manca all'appello finale della morte: riconferma evidente di come l'autore, sulla scorta della formulazione evangelica, creda soprattutto ai semplici per il manifestarsi della Grazia.
Nino Ghelli, "Rivista del Cinematografo", n. 3, 1980
Il settimo sigillo è un'affascinante danza macabra, un Medioevo immaginato sulla scorta di riferimenti esistenziali e teorici che a noi non appartenevano più e che pian piano hanno cominciato ad appartenerci di nuovo; è una galleria di personaggi che rispondono ognuno in modo diverso alle questioni di fondo di ogni filosofia e di ogni religione, a domande che, a lungo soffocate dall'impellenza di bisogni primari o a lungo mistificate da boriose certezze, l'umanità si è posta da sempre, ma sembravano aver poco corso o poca dignità nella supinità della nostra cultura (della nostra antropologia) ai dogmi e agli opportunismi morali.
Bene e Male, Dio e Satana, Fede e Scetticismo, Amore e Lussuria, Scelta e Destino, Accettazione e Rivolta, Vita e Morte, Datura e Storia, Speranza e Disperazione, Noto e Ignoto, e le Interrogazioni che nascono dallo smarrimento, dal turbamento, dalla paura, dall'angoscia si affacciano nel viaggio di ritorno a una casa pericolante di reduci crociati, con il loro seguito di variopinta umanità, cosciente e incosciente.
La Danza della Morte afferra e costringe tutti, ma la vita continua, e la speranza, e la disperazione, e le domande. Lutto questo un regista nel mezzo della sua vita e nel pieno del suo vigore creativo ha saputo offrircelo con sapienza di incastri e intuito di narratore provetto, ripercorrendo vecchi temi e modelli con l'agile immediatezza di un cinema fitto d'immagini e di storie, con sagace intuito spettacolare, con corposa evidenza, con accattivante dialettica - ammaliandoci e trascinandoci nella sua danza d'immagini per poter minare certezze e seminar dubbi anche in noi.
Goffredo Fofi, introduzione a Il settimo sigillo, Iperborea, Milano 1994
Il settimo sigillo si colloca tra due film diversissimi tra loro (Sorrisi di una notte d'estate e Il posto delle fragole) e segna il passaggio da un realismo delicato a una visionarietà sovraesposta. Fortuna vuole che questo passaggio si compia nel segno del rischio, della scoperta del momento, non sia cioè premeditato. La 'pazzia' che li fa nascere salva i simboli di cui il film è cosparso da ogni pesantezza, rende i personaggi creature umane e non pale d'altare. Raramente si è vista al cinema un'opera così fitta di allegorie e nello stesso tempo così immediata e leggibile. [...] Le sequenze più poetiche sono quelle che la memoria non aiuta (non sono diventate icone), che si riscoprono a ogni visione, e che sembrano nuove ogni volta. Riguardano la figura di Jan, lo scudiero, di sua moglie e del loro bambino. Non rappresentano la sacra famiglia, ma l'essenza del bene e del male che si può trovare nell'umanità. E anticipano un Bergman tutto terrestre, il quale sta già fugando le paure dell'infanzia e i cupi scheletri dell'aldilà, per approdare a una visione aspra e razionale della vita. Anche se in questo film, nato - parole sue - "da un'idea ingenua di ciò che si potrebbe chiamare la salvezza, dire una preghiera è un atto del tutto istintivo".
Gianni Amelio, Il vizio del cinema, Einaudi, Torino 2004
Il tutto è filtrato attraverso un'esperienza cinematografica di grande suggestione. Per descrivere l'emozione visiva si è citato Diirer, si sono evocate le sacre rappresentazioni medievali. Esemplare è, tra le altre, la scena (fot. 26) in cui i saltimbanchi offrono al cavaliere le fragole e il latte26. Bergman gioca magistralmente con la luce. Il bianco e il nero della scacchiera sulla quale il Cavaliere e la Morte giocano la partita definitiva della vita ('fot. 27) si ripropone in uno smagliante contrasto di ombre e luci nelle potenti sequenze destinate a illustrare simbolicamente i sigilli apocalittici: la peste, la violenza, la carestia, la fame, il potere. Viene rappresentato un nordico secolo XIV attraverso l'evocazione di pitture e sculture, religiose e profane (fot. 28 e 29). II gioco intellettuale dell'allegoria, dei richiami simbolici, del dubbio esistenziale si sposa armoniosamente - come di rado accade nella storia del cinema - con una raffinata poesia delle immagini.
Sergio Trasatti, Ingmar Bergman, Editrice il Castoro, 2011
Il settimo sigillo è un film picaresco, calato nella dimensione del viaggio come lo erano, del tutto o in parte, Piove sul nostro amore, Sete, Un'estate d'amore, Monica e il desiderio, Una vampata d'amore, Lezione d'amore, Sogni di donna e come lo saranno Il posto delle fragole e altri film successivi. Ma il viaggio qui, attraversa la tenebra di un mondo assediato dalla Morte, dove Bergman ha reinventato le immagini allegoriche dei dipinti medioevali, trasformandole in stazioni di un itinerario visionario e realistico al tempo stesso, nel periodo più angoscioso del medioevo svedese, il Trecento flagellato dalla Peste nera (che investì il paese nel 1349) ma adombra anche il presente (l'incubo dell'atomica). Non ha avuto l'intenzione di realizzare un film storico (infatti inserisce deliberatamente anacronismi come la condanna al rogo per stregoneria) ma fonde il fantastico al tragico e al comico.
Roberto Chiesi, Il cinema di Ingmar Bergman, Gremese 2018