“Io so che le vostre leggi sono ingiuste. Mi fanno paura. Se durante questo processo mi è capitato di voltarmi da un’altra parte, è stato per non vedervi in faccia”. Così dichiara Aldo Braibanti, interpretato da un Luigi Lo Cascio in stato di grazia, come del resto tutto il cast, nel processo per aver plagiato il giovane Ettore, ovvero per essersene innamorato, ricambiato, e di averlo portato con sé a Roma dalla nativa Emilia. Perché mentre fuori dall’aula di tribunale il Sessantotto inizia a mettere in discussione i tabù sociali e sessuali, lo Stato e la società italiani non hanno ancora imparato a pronunciare la parola omosessuale, figuriamoci poi all’interno di una frase dove ci sia la parola amore.

Ecco che allora la condanna di Aldo Braibanti diventa l’occasione per il regista di girare un biopic non solo del mirmecologo (studioso delle formiche, da cui il titolo del film), filosofo, drammaturgo, partigiano comunista e unico condannato per plagio nella storia del diritto, ma anche e soprattutto del Potere italiano che opprime la differenza: certamente attraverso i suoi apparati correttivi e punitivi, ma, anche, in modo pervasivo, occupando e rovesciando spazi di opposizione e controcultura.

“Si deve protestare per il Vietnam non per un invertito”, afferma un avvocato comunista a chi manifesta a favore di Braibanti fuori dal tribunale. Lo stesso direttore de L’Unità intima a Ennio Scribani (Elio Germano), il giornalista che si sta occupando del caso, di smettere di scrivere articoli: il giornale deve fare gli interessi delle masse popolari, non quelli di un vizioso. In questo l’opposizione si salda tristemente con gli apparati medici e giudiziari dello Stato: entrambi contraddistinti da quella “volontà di sapere” che, seguendo Foucault, vuole ricondurre tutto a “piani d’oggetti possibili, misurabili, catalogabili”.

Il signore delle formiche mostra, tuttavia, anche come questi apparati siano mandati in corto circuito dalla relazione tra Aldo ed Ettore, che non è catalogabile secondo i loro standard e non è nemmeno nominabile. Se il biopic politico italiano degli ultimi anni, da Buongiorno notte (2003) a Loro (2018), passando per Il Divo (2008)  e arrivando fino a Hammamet (2020) dello stesso Amelio e alla serie Esterno notte (2022), ha mostrato uomini politici che incarnavano specifiche immagini del Potere, con Il signore delle formiche Amelio rende il genere instabile: il Potere è qui spersonalizzato, incarnato appunto negli apparati statali e di opposizione; il biografato, consegnato all’amnesia storica, non incarna alcuna egemonia pubblica, né politica né culturale, ma solo quella privata dei sentimenti.

Amelio tiene in equilibrio questa riflessione sul Potere, di cui mostra anche le pericolose ramificazioni nel nostro tempo (il volto di Emma Bonino compare come monito) con le richieste di emozioni e sentimenti che ci si attende da una storia d’amore. Anche qui il film gioca con le aspettative del pubblico: il rapimento con cui si apre il film e, da cui parte, quasi in modalità noir, un lungo flashback, non è perpetrato da uno dei due amanti, ma dalla famiglia benpensante di Ettore che, pur dalla lontana provincia emiliana, non può sopportare che il proprio figlio sia scappato a Roma con l’uomo, più maturo di lui, che ama. La bravura del cast, esaltata dai piani sequenza, contribuisce in modo determinante a coinvolgerci in questa storia d’amore.

Le testimonianze al processo diventano occasione per monologhi che frammentano la narrazione in diversi punti di vista: quello già citato di Braibanti, quello di Ettore (Leonardo Maltese che davvero ci fa conoscere il suo personaggio) che, dopo pesanti e ripetuti elettroshock, non riesce ancora a capire quale reato sia contestato al suo amato, quello della madre di Ettore a cui la soprano Anna Caterina Antonacci dona tinte da melodramma.