In questa Mostra del Cinema all’insegna di solitudini (The Whale, Un couple), vite private (The Eternal Daughter), stretti nuclei familiari (White Noise, Love Life, The Son) e storie collettive privatizzate (Bardo, Beyond the Wall) – per quella che, se si pensa anche al ricorrente tema della morte e della paura della morte, sembra essere la vera edizione del post-pandemia – esistono alcune eccezioni di grande spirito collettivo. Eccezioni che scelgono il tribunale come via prediletta (Argentina, 1985 e Saint Omer per esempio). Poi arriva Il signore delle formiche di Gianni Amelio e questi due spiriti, privato e pubblico, sembrano fondersi.

Siamo in Emilia alla fine degli anni Sessanta. Aldo Braibanti – poeta, mirmecologo (ovvero studioso di formiche), ex partigiano – vive lontano dai centri, ma attorno a lui crea una comunità, una “scuola”, uno spazio creativo che riunisce giovani e permette di immaginare un “oltre”. Tra questi c’è un allievo affascinato, Ettore. Tra i due nasce qualcosa e il giovane si trova sempre più attratto al nucleo-Braibanti, che lo allontana dalla famiglia portandolo fino a Roma. Segue il fatto di cronaca: un oscuro (e nascosto) capitolo della storia italiana. Aldo Braibanti viene processato (e condannato) per “plagio” di uno studente da poco maggiorenne che, nel frattempo, viene rinchiuso in un ospedale psichiatrico. Nel frattempo un giornalista de “l’Unità” segue il caso a distanza muovendosi contro le spinte (e i disinteressi) del giornale stesso.

Il film è costruito attorno a due nuclei. Due metà ben definite. Due luoghi: l’Emilia-Romagna e Roma. Due protagonisti: Aldo Braibanti (Luigi Lo Cascio) e il giornalista Ennio (Elio Germano). Due storie che, per tornare al discorso di prima, mettono in campo una particolare commistione tra discorso collettivo e privato. Di fatto Il signore delle formiche è un film che vuole essere monito sociale e punto di riferimento morale (quanti film sul tema dell’omosessualità sono stati fatti in Italia negli ultimi anni?), ma allo stesso tempo si costruisce tutto sulla storia di emarginati che si auto-escludono (nel rapporto con l’ambiente, così come nel rapporto sociale), serviti da una regia che li circoscrive in sfondi opacizzati chiusi sui loro volti e totalmente disinteressata alle folle.

Il titolo lo suggerisce chiaramente. La passione per le formiche nasce da una fascinazione al loro saper fare comunità, creare un sistema paritario, che non sia di oppressione e prevaricazione. Mentre i due protagonisti, invece, oltre ad essere esclusi, si allontanano. A unire i due: il giovane ragazzo vittima di fuochi incrociati, plagiato dalle istituzioni, dal potere religioso e da quello politico, uno contrariato e l’altro disinteressato.

È anche una questione di stile e di forme. In una scena, Aldo Braibanti dice di non essere interessato alle storielle, ma ai frammenti. Le chiama “schegge che tagliano”. È un momento sentito che sembra anticipare qualcosa del film, del suo realismo disatteso (è tutto pura riscrittura, se non per il nome di Braibanti e alcune scene del processo) e ri-mediato nel tentativo di renderlo attuale. Ma nel complesso queste “schegge” non sembrano tornare, per un film molto più solido e compatto – forma che calzava perfettamente nel bellissimo Hammamet e che qui fatica di più – a servizio di contestualizzazioni che paiono programmatiche (l’apparizione di Emma Bonino) a servizio di un disegno più grande (senza dubbio accordato ai tempi).

Una figura sfuggente quella raccontata e reinventata da Gianni Amelio, come tante raccontate dal cinema italiano contemporaneo che vede proprio nei volti pubblici e negli individui l’unica via per raccontare l’Italia del passato. E qui è ribadito: la Storia e il dramma personale, in Italia, condividono da anni lo stesso spazio filmico.