Autore che nell’ultimo decennio si è dedicato al ripensamento del nostro passato tra storia risorgimentale e rivoluzioni culturali mancate, Mario Martone torna per il secondo anno consecutivo in concorso a Venezia con un film che in apparenza si distacca radicalmente dalle sue ultime prove. In una certa misura, tuttavia, Il sindaco del Rione Sanità potrebbe anche essere letto come un’appendice a quella ricerca del tempo perduto condotta in questi anni dal regista. All’origine, infatti, c’è il testo scritto nel 1960 da Eduardo De Filippo, incardinato sul ritratto di un personaggio che ben esprime un certo orizzonte sociale legato a un altro secolo: il capo che si è fatto da solo e interviene dove la giustizia ufficiale nulla può.

Esponente di una malavita antica fondata sull’onore, il settantacinquenne Antonio Barracano di Eduardo, nato alla fine dell’Ottocento, diventa qui un trenta-quarantenne dei giorni nostri, leader carismatico che risolve le controversie di quel popolo “ignorante” a lui devoto perché incapace di comprendere le leggi dallo Stato. Il film è sostanzialmente la trasposizione cinematografica dello spettacolo messo in scena da Martone dal 2017, adattamento dell’opera di Eduardo voluto dal protagonista Francesco Di Leva, anima del Nest (laboratorio teatrale alla periferia di Napoli), e benedetto dall’approvazione del compianto Luca De Filippo. L’impianto resta fortemente teatrale: pur con qualche inserto in esterni, come la sequenza della svolta che postula il finale e ricorda per il contesto La paranza dei bambini, l’azione si svolge sempre in interni, prima dentro la grande villa alle pendici del Vesuvio e infine nel vecchio appartamento del boss alla Sanità. Dalla notte alla sera, racconta la giornata in principio normale e invece davvero particolare a partire da una sparatoria per futili motivi tra due ragazzi.

Ora, l’aggiornamento anagrafico dei personaggi, dovuto al legittimo desiderio performativo di un Di Leva assai calato nella parte fino ai limiti del gigionismo, forza il testo nell’ambito di un’operazione che intende contaminare il classico con l’estetica, il décor, i colori di Gomorra. Nessuno è intoccabile, se si adatta Shakespeare perché non si dovrebbe mettere mano a Eduardo? Ma – e qui sta il problema – se il racconto della criminalità nel Sindaco del 1960 trovava una sua dimensione nel mutamento della stessa camorra in quel periodo, con il tramonto dei guappi paternalisti forse legati solo alla mitologia locale, al Sindaco del 2019 – arrivato dopo molti o troppi film sul temi analoghi – si riesce a credere fino a un certo punto.

È vero, come sostiene Martone, che l’età dei boss contemporanei si è abbassata e i conflitti morali sono sempre gli stessi nonostante il tempo trascorso. Eppure l’operazione sta in piedi quasi solo sulla superficie dell’intrattenimento d’alta scuola, sebbene l’impostazione teatrale sia un po’ troppo evidente nella recitazione dei bravi attori ormai rodati sul palcoscenico, in particolare la sapiente prova di Roberto De Francesco nel ruolo di un medico borghese finito per diventare complice e succube di Barracano.