Fra chi stigmatizza una certa senile e compiaciuta reiterazione di stilemi e ossessioni tipiche del suo cinema e chi da queste stesse si sente cullato e gioisce solo per un ritorno di Moretti al cinema delle sue origini, ci sono sempre per fortuna molte altre letture possibili. Già Woody Allen ha subito un trattamento analogo, esaltato dai suoi fan più accaniti quando è tornato a far ridere alla sua maniera dopo anni di film ritenuti poco alleniani: una reazione miope e intellettualmente pigra quanto lo era quella degli instancabili detrattori del suo cinema.

Parzialmente così anche Moretti, che dopo i suoi film più intimisti e dolorosi (La stanza del figlio e Mia madre), i due più complessi, stratificati e anche almeno parzialmente profetici (Il caimano e Habemus Papam) e l'ultimo davvero troppo poco apprezzato Tre piani, torna ad un cinema che ai più suonerà come familiare, un gradito e desiderato ritorno alle origini. Un ritorno al passato che non è affatto un ripiegarsi stanco e rassegnato su se stesso ma è anzi una sorta di riepilogo tutto spostato in avanti, verso un futuro ancora tutto da scrivere.

L'importanza della memoria è d'altra parte centrale nel cinema di Moretti, sia in chiave collettiva che personale: “ti ricordi? ti ricordi? ti ricordi?” gli domandavano in Palombella rossa “mi ricordo, mi ricordo, mi ricordo” risponde Nanni in questo film. Un film sul cinema, si direbbe in estrema sintesi, vero tema portante della pellicola, su quello che lui stesso ha girato negli anni, quello che vorrebbe ancora girare, sul cinema che ama e lo ispira e non di meno, come dubitarne, anche su quello che critica più aspramente. Film riepilogativo dunque questo suo ultimo, ma affatto testamentario.

Giovanni, cerca di fare un film su una sezione del PCI di un quartiere romano che nel 1956 invita ad esibirsi un circo ungherese proprio poco prima che scatti l'invasione dell'Ungheria da parte dell'Unione Sovietica. Il dramma politico che si consuma nel film, fra comunisti “di partito” e comunisti “nonostante il partito”, si salda ai piccoli grandi drammi che lo stesso regista vive dentro e fuori dal set, con una protagonista che si ostina, improvvisando fuori copione, ad innervare di scene d'amore un film eminentemente politico causando le ire del regista, la moglie Paola (Margherita Buy) in procinto di lasciarlo e di trascinarlo in una crisi di coppia che lui non riesce a comprendere, la figlia innamorata di un uomo molto più anziano di lei e il produttore del suo film invischiato in qualche guaio finanziario che si teme possa far naufragare tutto.

Film nel film, dunque, nel quale si desidera però anche girare un altro film (una storia d'amore commentata solo da canzoni italiane), che viene però solo immaginato nella fantasia di Giovanni, che scorgiamo mentre  nel suo set immaginario suggerisce le battute agli attori direttamente affianco a loro, regista dunque non tanto del film ma dei singoli personaggi e dell'intenzionalità del loro incedere attoriale.

Dove abiti Moretti in questo gioco di specchi, fra autore, attore, personaggio e persona, in questa ricerca di senso nel dissonante e problematico intreccio di ruoli diversi, sapientemente mescolati e inscindibili, è uno dei nuclei più affascinanti della sua poetica, ed è anche la ragione per cui affianco al suo amore per il cinema, nei suoi film coesista il suo interesse per il teatro e quello per la psicanalisi. Di questa dialettica fra realtà e rappresentazione, fra istanze psichiche e stranianti tentativi di fingersi altro da sé, è intessuta tutta l'opera di Moretti, che dietro ad un autobiografismo divertito e ironico, cela una indagine tesa, problematica e amarissima, sulla vita e sull'arte.

In questo senso, decisiva è la sua riflessione politica sullo sguardo, sul suo posizionamento, sull'etica e sull'estetica della visione, che palesa una urgenza morale volta ad intervenire nel corpo mobile della realtà per influenzarla. “Io non sono imparziale” ribadiva nel suo documentario del 2018, ed è sempre stato così.

I tempi forse in questi cinquant'anni di attività cinematografica sono cambiati, ma non l'intransigenza del suo sguardo, sul quale lui stesso ironizza, in una delle sequenze centrali del film. Così eccolo sul set di un film di un giovane regista, prodotto dalla moglie Paola, il giorno della ripresa di una ultima sequenza particolarmente violenta.

Un'ultima occasione per Giovanni per tentare una operazione di moralizzazione dello sguardo.
Dunque blocca le riprese, si piazza in mezzo alla scena e interviene per spiegare, ad una troupe esterrefatta, cosa significhi davvero girare una scena come quella, quali forze ci siano in campo, come la scelta di cosa raccontare e come possa davvero influenzare il mondo e intervenire sulla realtà, attraverso lo sguardo del pubblico. Fare un film è sempre anche un atto politico, vuole  ricordare Giovanni ai personaggi in scena, mentre Nanni lo ricorda a noi che guardiamo, ribadendolo forse anche a se stesso.

Chiama a raccolta Renzo Piano, Chiara Valerio, Corrado Augias, invitati lì sul set e lasciati liberi ad intervenire per dire la loro su quella scena, trasformata ormai in un tableau vivant, con gli attori immobili e sfiancati nella posizione che l'ultimo ciak prescrive loro. Una scena che non può non far pensare a Marshall McLuhan chiamato da Woody Allen ad intervenire dentro alla narrazione di Io e Annie per smontare la supponenza di uno pseudo intellettuale che in fila al cinema dietro di lui straparlava delle teorie del grande sociologo.      

La realtà però non funziona così, come commenta amaramente lo stesso Allen nel suo film. Nanni verrà infine accompagnato fuori dal set e la scena verrà finalmente girata esattamente come era previsto, anche se noi la vediamo solo in lontananza.  Il senso di sconfitta che ha negli occhi Giovanni mentre si allontana dal set è uno dei momenti più intensi del film, a sottolineare come al di là delle risate che certamente la scena che abbiamo appena visto ci ha procurato, la consapevolezza di aver fallito ci coinvolge tutti come spettatori, perché se fare un film è anche sempre un atto politico, non lo è di meno scegliere di guardarlo.

Così, in un finale dall'incedere bertolucciano, che evoca vagamente anche il finale di Film Rosso (del suo amato e citatissimo Kieślowski) in qualche modo si riannodano i fili di un percorso cinematografico che dura da cinquant'anni, fatto di idiosincrasie, fissazioni, facce stupite e recitazioni stranianti, viaggi, diari e giornali, grandi passioni, canzoni italiane ascoltate, ballate e ostinatamente cantate, di impegno politico dentro e fuori dal set, di film girati o anche solo desiderati, di lettere mai spedite e pasticceri trozkisti, di madri possibili, reali, immaginate, evocate o sublimate, di attori che sono il corpo e la sostanza stessa di un percorso poetico, qua richiamati a coesistere e vivere insieme un ultima volta in una sovrapposizione impossibile eppure possibile, fuori dalla storia e dal tempo, in quella che è la più struggente e radicale dichiarazione d'amore verso il cinema che Moretti abbia mai messo in scena.