In occasione delle proiezioni al Cantiere Modernissimo degli otto episodi del serial I topi grigi (1918) di Emilio Ghione, abbiamo pensato di fare qualche domanda a Denis Lotti, docente di Studi sull’attore nel cinema all’Università di Padova e Caratteri del cinema muto presso l’Università degli Studi di Udine. Lotti ha dedicato le sue ricerche a Emilio Ghione, pubblicando nel 2008 la monografia Emilio Ghione, L’ultimo apache. Vita e film di un divo italiano. Ha inoltre concretizzato i suoi studi sul divismo maschile in Muscoli e frac. Il divismo maschile nel cinema muto italiano (2016). È, infine, protagonista del documentario Rai Sperduti nel buio (2014).

Qual è la genesi dei tuoi studi su Emilio Ghione, attore, divo, regista, scrittore così poco conosciuto?

Tutto nasce durante la mia carriera universitaria e dalla proposta di tesi di laurea col mio relatore Gian Piero Brunetta. All’inizio volevo lavorare su Vecchio cinema italiano di Eugenio Ferdinando Palmieri, vicentino come me, ma capii che il progetto era infattibile perché Palmieri in realtà era più legato a Bologna e l’archivio di Palmieri non esisteva più, o meglio, parte dell’archivio era di proprietà del nipote, che però non riuscii a rintracciare. La proposta di lavorare su Emilio Ghione mi venne fatta da Brunetta, poiché ero semplicemente intenzionato a lavorare su un regista, su un filone o una serie di film di cinema muto. Tra tanti mi propose proprio Ghione. Conoscevo solo una puntata de I topi grigi che all’epoca, devo dire, non mi aveva nemmeno colpito più di tanto. Poi, approfondendo, capii che la faccenda si poteva fare più interessante, si poteva spaziare nel popolare, ci si poteva concentrare sul cinema seriale e da lì mi sono innamorato di Za la Mort. Era il 2003 e ancora non esisteva alcuna monografia dedicatagli; solo nel 2007 Vittorio Martinelli pubblicherà Za la Mort, edito dalla Cineteca di Bologna. Tra l’altro, le notizie a riguardo erano molto frammentate e focalizzate su luoghi comuni, come il “Ghione fascista” o il “Ghione camicia nera”, fortunatamente ora abbastanza superati.

“Cento anni fa: 1919” è una sezione del Cinema Ritrovato di quest’anno. Per Ghione, il 1919 è un anno particolare.

Il 1919 di Ghione è un anno di rottura e di grandi cambiamenti. Ritorna nella sua Torino e va a lavorare per l’Itala Film che però era già diventata parte di quella che sarà l’Unione Cinematografica Italiana. Lì gira, da quello che sappiamo, il lungometraggio Sua Eccellenza la Morte, ad oggi esistente in due parti su quattro, conservate al Gosfilmofond di Mosca, più alcuni frammenti alla Cineteca del Friuli, e un serial, Dollari e fracks, di cui ci rimane l’ultima parte dell’ultima puntata, conservato all’Eye Filmmuseum di Amsterdam e al Museo del Cinema di Torino. Dopodiché, secondo la sua autobiografia che si interrompe proprio nel 1919, Ghione ebbe un litigio con i responsabili dell’Itala Film a causa di un rinnovo di contratto e decise quindi di lasciare Torino per recarsi a Napoli e lavorare per Gustavo Lombardo, patron della Titanus. Anche a Napoli girerà un serial, Il castello di bronzo. Un anno quindi importante, anche perché in Dollari e fracks avviene la fusione tra divo e personaggio. Seguendo il modello di Maciste del 1915, Ghione interpreta se stesso che si reca negli studi Itala e diventa Za la Mort. Ghione e Za la Mort sono quindi entrambe le cose.

Oltre al serial I topi grigi, ad oggi il serial più completo giunto a noi, c’è un altro film quasi interamente sopravvissuto che è Zalamort der Traum der Zalavie, caso interessante perché prodotto e girato in Germania.

Di questo film credo manchi solo il prologo che si potrebbe ricostruire basandosi sul finale e su una scena a metà del film. Inspiegabilmente, in questa scena, vi è Za la Vie che sta dormendo e indossa abiti che non si sono mai visti nel corso della storyline del film. Dell’edizione della Cineteca di Bologna manca, appunto, solo la parte dell’incipit che ipotizzo essere così: Za la Vie e Za la Mort incontrano in un locale una bellissima donna, interpretata dall’attrice americana Fern Andra. Tra quest’ultima e Za la Mort avviene uno scambio di occhiate maliziose che scatena la gelosia di Za la Vie. Za la vie torna a casa indispettita, si addormenta e da qui l’incubo del titolo. Ecco perché vediamo Za la Vie a metà film con abiti diversi. Inoltre, nella scena finale, viene recapitato a Za la Mort un mazzo di fiori da parte di Fern Andra: Za la Mort rassicura Za la Vie, burlandosi della sua gelosia. Per quanto riguarda l’aspetto produttivo del film, girato a Berlino tra il 1923 e 1924, si tratta di un film d’avventura che riprende alcuni aspetti dello Za la Mort (perduto) del 1915. In Zalamort der Traum der Zalavie troviamo generi come l’avventura, la love story, la spy story, il fantastico, insomma, una sintesi del cinema di Ghione, però, in questo caso, girato con la tecnologia della Germania di Weimar. Una regia bellissima, una fotografia altrettanto bella, un utilizzo della luce eccezionale…

film quindi influenzato dall’espressionismo tedesco.

Certo, è visibile soprattutto nelle scene ambientate nella taverna. Fern Andra, poi, lavora con Wiener, quello ha sicuramente influito molto sull’aspetto formale del film.

Quanto contano I topi grigi e Za la Mort nell’immaginario collettivo, soprattutto dopo la sua morte nel 1930?

Quella di Ghione, a partire dagli ultimi anni di vita, fu una fama famigerata, immeritata, dal mio punto di vista. Gli furono attribuiti riferimenti politici che non gli appartenevano. L’unica cosa era questa camicia nera che Ghione indossava nei film, che era più una questione legata alla messinscena, al non uso del colore. Ghione fu sì fascista, ma a modo suo. Ha avuto solo, diciamo, il torto di morire nel 1930, non facendo in tempo a cambiare idea e a redimersi. Non è mai stato, va detto, ispiratore di quello che è lo squadrismo, come per molto tempo si è creduto. Quella della camicia nera è solo una casualità, la storia che si appropria di un simbolo come questo. Un’altra intuizione suggestiva è quella di vedere negli occhi di Mussolini gli occhi di Za la Mort. Parere liberissimo, ma è comunque un giudizio di valore che secondo me non c’entra nulla.

Nel secondo dopoguerra, comunque, c’è una seconda vita del personaggio di Za la Mort con romanzi come L’Ombra di Za la Mort, edito nel 1928, successivamente nel 1930 e infine nel 1979 con una prefazione di Morando Morandini. Nell’immediato secondo Dopoguerra, Za la Mort riprende vita grazie all’industria dei fumetti, con pubblicazioni di strisce ad albi orizzontali edite da Stellissima, una piccola casa editrice milanese specializzata di narrativa popolare. La reincarnazione vera e propria avviene infine nel 1947 con La fumeria d’oppio di Raffaello Matarazzo, con il figlio Piefrancesco Ghione che interpreta il padre. Più avanti iniziano i primi studi, le prime ricerche approfondite e le prime retrospettive dedicate a Emilio Ghione.

La cosa curiosa sui I topi grigi durante la Seconda Guerra Mondiale è che il serial rientra nella lista di produzioni cinematografiche sottratte al Centro Sperimentale di Cinematografia dalle truppe tedesche nel 1943. Fortunatamente, per qualche fortuito motivo, le bobine si persero e vennero ritrovate a Milano, dove poi si procedette al restauro che possiamo vedere oggi.

Quali sono i tuoi progetti futuri?

Sto lavorando da una parte ancora sull’attore nel cinema muto, dall’altra mi sto occupando del cinema di finzione di Salò, un buco nero nella nostra storia, di fatto ancora sconosciuto. Sto cercando di capire quali siano i film prodotti in quegli anni. Di fatto ci sono film girati e mai montati oppure girati, montati in tempi strettissimi e in condizioni non ottimali. Ancora, girati, montati dopo la fine guerra e usciti con altri titoli. La sfida è quella di ricostruire questa filmografia. Sto facendo delle ricerche all’Archivio Nazionale dello Stato, all’ASA, l’Archivio della Biennale e vari archivi pubblici e privati. L’obiettivo è quello di costruire un database all’interno del sito dell’Università di Padova con le notizie di questi materiali, costituendo una specie di mappa spazio-temporale. Infine sto concludendo alcune ricerche dedicate a un piccolo film di Petrolini, un meta-film che, con la scusa della messa in scena teatrale, prende in giro per l’ennesima volta i cliché dell’interpretazione maschile cinematografica legata al divismo. Una sorta di conclusione sui miei studi sul divismo maschile. È imminente una curatela su Immagine. Note di storia del cinema dedicata al divismo maschile, non solo in Italia, ma a livello internazionale.