Arriva indossando una maglietta con la scritta “Team Meghan and Harry” e dicendo che vestirsi in questo modo era l’atto più radicale che potesse fare alla sua età. Ma di cose radicali Jamaica Kincaid continua a dirne e, soprattutto, a scriverne. Dai romanzi di ambientazione caraibica al pamphlet Un posto piccolo (1988) sullo sfruttamento turistico di Antigua fino a Lucy (1990) e Vedi adesso allora (2014) di ambientazione americana e al suo interesse per il giardinaggio, tutto è radicale nell’opera di Kincaid.

Come lei stessa afferma durante l’incontro conclusivo di Archivio Aperto per la sezione “Poetry, Diaries, Novels”, “ho fatto qualcosa di imperdonabile introducendo politica e razza all’interno del giardino”, riflettendo che è nel Giardino dell’Eden che Dio assicura a Adamo il potere di denominare le cose e che il lavoro nell’orto di Thomas Jefferson sembra venir fatto dagli ortaggi stessi che passano dalla terra al piatto senza che siano nominati gli schiavi come responsabili del lavoro.

La scrittrice americana nata ad Antigua ha dialogato con Francesca Maffioli e Nadia Terranova proprio partendo dal titolo della rassegna di quest’anno, “The Future is Memory”, la cui sovrapposizione e concentrazione temporale costituisce anche un tema portante dell’opera di Kincaid. Nel suo ultimo romanzo Vedi adesso allora, la scrittrice lo afferma esplicitamente: “allora e adesso, tempo e spazio che si fondono, diventano una cosa sola, tutto nella mente della signora Sweet”.

Kincaid sostiene che la condizione stessa di soggetto postcoloniale, ridotto in schiavitù e dominato da potenze straniere, vittima di una storia dei vincitori (“His-story”) prima ancora che della Storia (“History”) porti necessariamente ad una mancanza di memoria, ad un continuum ininterrotto di sfruttamento e marginalità durato 500 anni. Questa dominazione, iniziata con lo sbarco di Colombo e la sua acquisizione di consapevolezza del potere che poteva esercitare sulle popolazioni locali, si caratterizza per la denominazione di persone e cose delle colonie rispetto a standard europei. Gli stessi nomi propri diventano problematici, simboli estremi di una depersonalizzazione.

Dopo quasi ottanta pagine di narrazione anonima, l’io narrante di Autobiografia di mia madre (1996) finalmente dichiara il suo nome, “Xuela Claudette Richardson”, che varia dal nome di sua madre “Xuela Claudette Desvarieux” solo per il cognome del padre. Tuttavia, Xuela si chiede immediatamente che cosa sia un nome vero e chi siano queste persone Claudette, Desvarieux e Richardson, che nominano la sottomissione dei popoli dei Caraibi e alimentano l’odio verso loro stessi in quanto inferiori.

Ecco, allora, che l’opera di Jamaica Kincaid, il cui nome di battesimo è Elaine Potter Richardson, inizia con un atto di auto-denominazione che è, al tempo stesso, personale e geografico: un’affermazione della sua identità che deforma la denominazione coloniale (“Xaymaca”) e costituisce una protezione verso le critiche e il sarcasmo della madre per i suoi scritti. Kincaid concepisce la sua scrittura come un tentativo di auto-invenzione, proprio per preservare il senso di identità e la memoria dell’io.

Come lei, spesso, i suoi personaggi, largamente autobiografici ma verso cui la scrittrice ci ammonisce di non cercare corrispondenze con la sua vita, si interrogano spesso sul senso di identità personale, anche all’interno di quella narrazione collettiva a cui, in quanto discendenti di schiavi originari dell’Africa, sono legati. In questo processo, arrivano anche a invocare tutta una serie di argomenti che potremmo chiamare con la doppia negazione di Toni Morrison, “unspeakable things unspoken”: la sessualità femminile e il diritto delle donne al controllo sul proprio corpo, l’inadeguatezza della risposta verso la pandemia dell’AIDS e l’incapacità di comprendere il desiderio omosessuale nel potente memoir Mio fratello (1997), il sistema coloniale come fondamento per l’odio razziale tra le stesse comunità di dominati. Cose indicibili finalmente dette.