“..si preoccupava molto di cosa sarebbe diventato popolare in seguito. Che io sappia è l'unica persona al mondo che sia stata in grado di predirlo regolarmente (...) voglio dire, tutti pensano di sapere cosa funzionerà. Io direi che tutti, a parte Steven Spielberg, non ne hanno idea. Ma lui sì. Lui lo sa davvero, cosa funzionerà. ”
                                                                                                                                                                                                                                 (John Milius)

2045. Avvelenato dall'inquinamento, impoverito dalla sovrappopolazione e dalle guerre, il mondo è ridotto a una grande baraccopoli in preda alla depressione economica. La gente gli preferisce la brulicante realtà virtuale del videogame Oasis, parto geniale della mente del programmatore James Halliday (Mark Rylance); quasi tutti passano più tempo nel proprio Avatar che fuori, fra corse e battaglie con fucili a impulsi, upgrade e vertiginosi cambi di look. Ma Halliday muore e lascia l'umanità con un enigma da risolvere. Tre missioni, tre indizi, tre chiavi magiche per mettere le mani su una ricompensa inestimabile, e soprattutto la soluzione al mistero della sua vita..

Fra l'affetto e una punta di irritazione, la frase di Milius si riferiva in primo luogo allo Spielberg impareggiabile affarista della settima arte. Ma - venendo fra l'altro da uno sceneggiatore di quel calibro - significa molto di più, richiama l'attenzione sulla volontà di rinnovamento, lo sforzo immane di difendere il proprio posto nell'immaginario collettivo tramite lo studio ossessivo dei suoi caratteri inafferrabilmente mutevoli. È dal primo exploit con Duel (1971) che il trascorrere del tempo è amico di Spielberg, in quel caso come in Lo squalo cinematograficamente digerito in un suspance degno di Clouzot o Hitchcock. Più passano gli anni e più il suo ruolo si fa scoperto e ponderato, fino ai 2000-2010 in cui le riflessioni una volta più diluite su Storia e progresso proliferano assieme a veri e propri trattati come Minority Report e Prova a prendermi.

Impossibile allora resistere al fascino della vicinanza di The Post, gemello eterozigote a cui l'ultima fatica del regista è legata specularmente. Da una parte il racconto storico ricollocato nel contingente o addirittura nel futuro. Dall'altra la distopia futuribile tesa alla ricerca, nel passato umano e iconografico, della propria identità. Un cinema "dell'omaggio" che passa per il rispolvero del proprio arsenale narrativo, e un cinema autoreferenziale (il campo da gioco sono gli anni '80 tirannicamente dominati proprio da Spielberg) che sfocia nella celebrazione ultracitazionista di un intero e spesso "altro" mondo di fantasia. Ma siccome il gemello più grande nasce per secondo Ready Player One contiene anche da solo l'intero dualismo, euforia tecnologica e detection esistenziale, baluardo del classico e insieme punto di non ritorno della bulimia auto-ammiccante di questi ultimi anni.

La ricerca di verità del protagonista Wade/Parzival (Tye Sheridan) sul mistero di James Halliday ha per modello dichiarato quella di Quarto potere, con Halliday al posto di Kane a simboleggiare la cultura pop in genere, più nello specifico il cinema - esemplificato nell'omaggio da figliol prodigo al da lui inizialmente poco amato Shining del maestro Stanley Kubrick - e in ultima istanza il ruolo giocatovi dallo stesso Spielberg, che di Kubrick può davvero dirsi miglior erede per la costanza nel definire e ridefinire la tempestività del proprio cinema: ora da assoluto innovatore e ora, cinquant'anni sulla breccia, da istituzione caparbiamente incapace di rassegnarsi al ruolo di retroguardia (l'evidenza di questo legame che ancora in tanti si ostinano a negare è un'ottimo indizio sul disamore "aristocratico" di Cronenberg per entrambi).

Come accennato Spielberg non sacrifica la dimensione introspettiva, specificamente "moderna" e wellesiana della caccia al tesoro. Halliday non è soltanto una figura demiurgica o semi-divina, è un uomo, come noi e a differenza di tutti gli altri personaggi, che da grumi di pixel si fanno più profondi e sfaccettati via via che si avvicinano alla misura di questa umanità (la lacrima che scende dal visore elettronico). La ricerca disperata di calore, la solitudine straziante di A. I. (di nuovo Kubrick) che lasciava il piccolo androide spegnersi nell'assolutamente artificiale della "macchina dei sogni" erompe a piena potenza nell'incontro al di fuori del gioco, nella collettività, perfino nella rivoluzione. E come in un cerchio che si chiude, sfocia nel mare della Storia.

Come per Kane l'approdo è un ritorno alle radici, che nel caso di Ready Player One consiste nella fusione armonica dei due mondi, presi uno per uno così chiaramente insufficienti. Il cavaliere Parzival che cercava il Graal da solo deve incontrare i suoi amici. Il "Player One" del titolo (regista, spettatore, uomo) deve imparare a giocare di squadra. L'individuo deve entrare nella Storia. L'America (il nome tre volte parlante di Columbus, Ohio, fra l'altro stato natale di Spielberg) aprirsi al resto del mondo (il cosmopolitismo dei volti protagonisti). Dentro e Fuori, le categorie a cui certa critica ha ricondotto la totalità del cinema spielberghiano, incontrarsi da qualche parte a metà strada. Esemplari a tal proposito i momenti di confusione, come la reazione "da spettatore" più che "da personaggio" di uno dei protagonisti agli orrori dell'Overlook Hotel; o quella in cui, mentre il protagonista all'interno del gioco tenta di girare la chiave-manufatto nella toppa, fra il pubblico in attesa che guarda in mondovisione una ragazza grida "gira la chiave! Quanto può essere difficile?". Quello che diciamo tutti, nella vita di tutti i giorni, non capendo perchè la maledetta non entri.