Killers of the Flower Moon, tratto dal libro di David Grann Gli assassini della terra rossa, si colloca senza dubbio tra i film più violenti e spietati dell’intera filmografia di Scorsese. Un’opera tanto splendida quanto agghiacciante in cui il regista newyorkese denuncia l’orrore con la lucidità e la freddezza di chi sa che non smetterà mai di riproporsi.

Col fare dell’antropologo, Scorsese ricostruisce un mondo rendendolo credibile grazie ad una sceneggiatura solida e ad una maniacale cura del dettaglio, conducendoci all’interno della riserva indiana degli Osage in Oklahoma negli anni ’20 del secolo scorso. I nativi americani a cui questa terra è stata assegnata hanno avuto la fortuna, o forse no, di trovarsi su degli abbondanti giacimenti di petrolio e dunque di arricchirsi enormemente. Di conseguenza sono stati circondati da frotte di uomini bianchi, sciacalli pronti ad uccidere pur di accaparrarsi le concessioni terriere.

In questo scenario si muovono personaggi meschini, cinici e razzisti. Tra loro spicca certamente William Hale (Robert De Niro), uomo ricchissimo e spietato, proprietario di un grande allevamento. In lui si incarna nella forma più bruta l’animo conquistatore e arrivista dell’uomo bianco che, attraverso la manipolazione e la violenza, passa sul cadavere di chiunque pur di aumentare il patrimonio.

Quando da lui si presenta suo nipote Ernest Burkart (Leonardo DiCaprio), di ritorno dalle retrovie della Prima Guerra Mondiale, sa subito come sfruttare efficacemente la sua stupidità spingendolo a sposare Mollie (interpretata da una meravigliosa Lily Gladstone), una Osage di famiglia molto ricca a cui resta solo la madre malata come ostacolo verso l’eredità. I terribili eventi che seguiranno sono una parte dell’orrore subito da questo popolo annichilito fin nella sua stessa identità.

Il film inizia proprio in una capanna Osage dove ha luogo una sorta di cerimonia funebre in cui non si piange per la morte di una persona, ma per quella di un popolo intero. “I nostri figli dimenticheranno le nostre usanze, saranno educati dai bianchi” dice il vecchio del villaggio, mentre da alcune fessure nella tenda si moltiplicano gli occhi di ragazzini curiosi posti, non a caso, al di fuori di qualcosa che non avranno mai la possibilità di comprendere. Questa scena dal significato così chiaro e drammatico è l’anticamera della tragedia, la premessa di un massacro materiale e spirituale.

In Killers of the Flower Moon assistiamo alla monetizzazione radicale dell’essere umano sotto la pressione di un capitalismo sempre più pervasivo e diffuso. Il denaro è l’unica cosa che conta e l’individuo sparisce sotto la sua indifferenza, soprattutto se non è bianco. Tutti i personaggi sembrano muoversi solo per ottenere una ricompensa o un arricchimento di qualche tipo: a partire da Ernest fino agli agenti del FBI vanno a costituire un ritratto glaciale di una società fondata sul profitto a qualunque costo. E’ una costellazione di personaggi esemplificata dalla splendida immagine dei campi di Hale in fiamme, mostrati attraverso il vetro di una finestra che deforma i corpi trasformandoli in deformi ombre nere.

Il denaro non rappresenta solo l’oggetto del desiderio che annulla qualunque remora etico-morale, ma anche il potere, che in questo caso assume il volto contratto di William Hale. Il personaggio interpretato da De Niro è la quintessenza del potere, forza di gravità capace di attrarre a sé tutta la comunità che si chiuderà in un silenzio omertoso di fronte alle domande degli agenti del FBI. Sotto questo aspetto la figura di Hale è simile a quella di un gangster spietato, un boss senza scrupoli capace di costruire veri e propri rapporti clientelari o massonici che allungano i suoi tentacoli fino alle istituzioni tenendo sotto scacco la collettività. Per questo oltre a essere un western-noir, come l’ha definito Scorsese, questo film potrebbe essere anche etichettato come un gangster movie non troppo lontano da film come Goodfellas o Casinò se non per l’ambientazione.  

Il nuovo film di Scorsese è una brillante ricostruzione di un momento storico in cui si sono poste le fondamenta degli attuali Stati Uniti. Delle radici insanguinate, fatte di violenza e razzismo, con cui gli americani non hanno mai davvero fatto i conti. Un’opera che ci ricorda la necessità di fermarsi a osservare le macerie del passato come unica prerogativa per poter costruire un futuro migliore.