Lo avevamo lasciato nel 2019, chiedendoci quale piega avrebbe preso il suo cinema dopo la svolta di The Irishman, film che pur di mafia fissava funereo un’eloquente discontinuità dalla passata produzione nell’approccio alla materia, stilistica e di contenuti. Killers of the Flower Moon è la risposta a quella domanda, già dalle tre ore e trenta di abnorme durata, pari al minuto a quella di The Irishman.

Se la discontinuità del precedente film era sancita anche geograficamente dal trasloco del regista italo-americano e della sua gang dalla natìa New York alla non troppo distante Filadelfia, con il suo ventottesimo lungometraggio l’ottantenne Scorsese allunga e di molto la misura del suo passo in quella stessa direzione, verso il centro degli Stati Uniti, approdando nelle pianure fiorite dell’Oklahoma.

Qui, alla fine del primo conflitto mondiale e al guado fra l’Età dell’innocenza e il secondo dopoguerra di The Irishman, i nativi Osage prosperano degli incalcolabili indotti del commercio del petrolio, che scorre a fiumi sotto le terre della riserva in cui li ha relegati decenni prima nella sua corsa all’oro l’uomo bianco. Ignaro all’epoca del nuovo tesoro ivi nascosto, quell’uomo è tornato sulla terra altrui per riprendersela, uccidendo e depredando di nuovo.

Lo sterminio ha le forme del misterioso stillicidio di morti fra giovani Osage -per suicidio, deperimento o scomparsa- su cui viene infine coinvolta ad indagare la neonata F.B.I.. Vi si affianca una versione più solare e indiretta di genocidio, che prevede l’incrocio meticcio fra bianchi e pellerossa in unioni volte a far ereditare ai primi le concessioni sulle terre dei secondi.

Il “muso bianco” di Killers of the Flower Moon è quello di Leonardo Di Caprio. Imbruttito e inzotichito nei tratti e nei modi, l’attore è il reduce illetterato Ernest Burkhart, manipolato dallo zio imprenditore William-“The King”-Hale per inserirsi nella famiglia di quattro ricche sorelle indigene, e nel corso degli anni marito a suo modo sinceramente innamorato di una di loro, Mollie. Il lavoro sul suo personaggio così come su quello di Hale (De Niro) è una delle chiavi di lettura attraverso cui guardare il film.

In tutta la precedente produzione di Scorsese, l’uomo, nella sua realizzazione e auto-affermazione, fossero anche mafiose, era sempre stato al centro di ogni considerazione ulteriore. Se in The Irishman potevano vedersi i primi voluti scricchiolii a questa poetica d’autore, con quei vecchi delinquenti in ospizio indifferenti alla loro carriera e in attesa solo di riconciliarsi con le figlie, in Killers of the Flowers Moon si va oltre.

Fatta eccezione, e non a caso, per il legame romantico fra Ernest e Mollie, né lui né Hale sono connotati di qualsivoglia complessità o sfumatura, perché privi dell’una come dell’altra. E se in The Irishman chi desiderava scusarsi per il proprio passato era uno dei personaggi, Frank Sheeran, con la figlia minore, qui è lo stesso regista a sentirsi in dovere di rendere giustizia, e a una tribù intera che mai l’ha avuta.

L’operazione viaggia su due piani: da un lato il martirio cristologico di Mollie, cuore della propria famiglia, della sua tribù e del film; dall’altro le redini stilistiche di Scorsese che intrattiene sì con la maestria usuale, ma deprivandola della foga e della veemenza di quando lui stesso era più giovane (è ben presente la testa stretta nella morsa in Casinò e la radicale distanza da questa dei crani dissezionati di Killers?) per confezionare un’ultima ora di film che va in crescendo per astrazione e corrispondente abbassamento di toni e suoni. 

Laddove l’uomo si fa insignificante quanto i moscerini che tormentano Ernest interrogato dall’F.B.I., ad acquisire rilevanza è il tempo: quello nullo perché indistinguibile dei tre piani temporali delle gesta malavitose di The Irishman, e quello colpevole e smisurato trascorso dai massacri di Killers of the Flower Moon e la giustizia della quale erano e restano in attesa. Non stupisce, quindi, che il film si concluda con l’accostamento visivo dall’alto e a estendersi fra i monaci tibetani cacciati dalla loro terra e sacrificati nel sogno premonitore in Kundun e la tribù degli Osage che vi si sovrappone come un calco nella cerimonia danzata che chiude il film.