Richard Slotkin, uno che di mitologia americana se ne intende, ha scritto che suscitare l'identificazione del pubblico con un personaggio negativo può costituire un potente strumento di critica nei confronti del sistema ideologico a cui questo appartiene. Solo vedendo il mondo coi loro occhi arriviamo a riconoscere davvero il razzismo di Ethan Edwards in Sentieri selvaggi (1956) o la violenza dei protagonisti di Il mucchio selvaggio (1969), forti del nostro senso di distacco nel condannare le azioni di chi - per carisma e per convenzioni narrative - avevamo dapprima interpretato come eroe. Come insegnano questi film, il metodo è però rischioso, perché espone alla non remota possibilità che il contenuto critico non riesca a bypassare quel carisma e quelle convenzioni, portando lo spettatore a parteggiare nonostante tutto per il "cattivo".

Il monito di Slotkin si adatta particolarmente bene al cinema di Martin Scorsese, dove un ruolo fondamentale è giocato dalla seduzione che i protagonisti arrivano a provare nei confronti del male (Profana Trinità di potere, denaro ed edonè), portando il pubblico a vedere il mondo tramite i loro occhi e infondendone il milieu infernale di un indubbio fascino intossicante.

A partire da quel Taxi Driver (1976) che da sempre viene paragonato proprio a Sentieri selvaggi, la trappola in cui rischia di cadere lo spettatore scorsesiano è quella di un'identificazione acritica coi protagonisti di un mondo criminale immorale ma coinvolgente ("ho sempre voluto fare il gangster"), che quasi immancabilmente finisce per suscitare forme di culto spettatoriale nei confronti dei suoi Bravi ragazzi. L'ambiguità, appunto, coi suoi pregi e i suoi rischi.

Nel raccontare l'ennesima discesa agli inferi del Sogno americano, stavolta Scorsese sembra però volersi smarcare da qualsiasi malriposto senso di idolatria. Killers of the Flower Moon, che da subito non esitiamo a definire un capolavoro, unisce infatti due fili conduttori della sua opera: da un lato la seduzione del male tipica dei suoi film gangster (ma anche di un Goodfellas sotto mentite spoglie come The Wolf of Wall Street, 2013); dall’altra l’interesse storico, sempre attraversato da una decisa vena morale e spirituale, di film come Kundun (1997) e Silence (2016).

Le due linee si erano già intrecciate in passato, nel period drama viscontiano L’età dell’innocenza (1993) e nel criticato Gangs of New York (2002), che di Killers rappresentano gli antecedenti più significativi per il loro racconto – rispettivamente – dell’aristocrazia come milieu criminale e di un’America di confine il cui sviluppo socioeconomico si fonda su clan di stampo mafioso che operano in un mondo irraggiungibile dalla legge.

Insistiamo sull’aspetto storico perché ci sembra che gran parte della coraggiosa operazione di Scorsese consista in un’epurazione del suo cinema da tutti gli elementi glamour che lo hanno sempre contraddistinto, lasciando intatto il canovaccio, lo scheletro della seduzione diabolica, senza però correre il rischio che questa possa tracimare dallo schermo risultando affascinante.

Raffreddata dalla calma spirituale dei suoi kolossal storici, la fornace spettacolare del gangster movie scorsesiano rallenta i battiti, assestandosi su un equilibrio pachidermico rotto solo occasionalmente da brusche accelerazioni di violenza. Alla cocaina si sostituisce l’insulina corretta col veleno; all’epica apocalittica degli Stones di Gimme Shelter, la slide guitar dell’amico (per metà Mohawk) Robbie Robertson, accompagnata da una parata di spettrali Delta blues che sono la colonna sonora dell’inconscio americano di inizio Novecento.

Pur mantenendo caratteri di “grande racconto” fluviale e trascinante, Killers si astiene così dalla costruzione di qualsiasi mitologia. Se è un gangster movie, gli manca però totalmente l’esaltazione criminale. E certamente non è un western, genere con cui dialoga ma rispetto al quale si pone del tutto a latere, come a voler scavare un solco parallelo e indipendente nella storia delle rappresentazioni possibili di quell’America di frontiera.

In questo senso genialmente sovversiva risulta la scelta di raccontare uno spaccato paradossale, quello dell’Oklahoma degli anni Venti, con i bianchi apparentemente ridotti a un ruolo succube (vetturini, lustrascarpe, ambulanti) rispetto al popolo nativo degli Osage arricchitosi grazie ai giacimenti di petrolio. Parimenti rinfrescante – nella sua assoluta aderenza ai fatti – il ritratto degli uomini come lupeschi cacciatori di doti, rovesciamento di uno stereotipo femminile di gold digger che al cinema ha radici antiche quanto la Grande Depressione.

Oltre a dire qualcosa di molto interessante sugli Stati Uniti di oggi, come la radicalizzazione di quelle zone bianche depresse che si sentono messe al muro dalle conquiste degli altri gruppi etnici, Scorsese trova in quest’ambientazione il materiale per un discorso politico “intersezionale” che di sicuro non ci si aspettava da un autore di ottant’anni, e che sbugiarda per ricchezza e complessità qualunque slogan partorito dalla Hollywood liberal.

Fra lo humour luciferino di De Niro e l’inetta brutalità di un Di Caprio sensazionale, a colpire ed emergere davvero è infatti la carrellata di straordinari interpreti di origine nativa, forse mai così tanti e in ruoli così a tutto tondo nella storia del cinema americano. Il film è anzitutto un inno a loro, in particolare alla componente femminile, fatta di donne intelligenti e smaliziate che lottano per restare a galla in una “fiumana” che ha in serbo per loro un destino di sangue.

Chiudiamo spendendo due parole sul finale, stilisticamente quasi un capitolo a parte, e che per un attimo sembra voler mettere in dubbio – in quanto fatalmente “novellizzato” e teatralizzato – il valore storico e memoriale della vicenda. Come a dire che qualsiasi storia, per quanto straziante e cogente, una volta messa su pellicola o in onde radio perde qualcosa della propria verità, trasformandosi (per usare un termine inviso a Scorsese) in nient’altro che content, merce senza valore se non quello di scambio commerciale. Poi, il contro-coup de théâtre: è il regista stesso a parlare, un po’ come Orson Welles nel finale de L’orgoglio degli Amberson (1942), ma mostrando anche corpo e volto, in una disperata professione di sincerità.

Curiosamente, vista la differenza anagrafica e stilistica che intercorre fra i due, è un’idea molto simile a quella impiegata da Wes Anderson nei suoi corti tratti da Roald Dahl, dove il Narratore racconta la storia direttamente in macchina guardando il pubblico negli occhi: una voce e uno sguardo che si levano in mezzo alla prigione del narrativo, dell’iper-mediatico, dell’indifferenza fra realtà e finzione. Una rivendicazione del ruolo dell’Autore come guida e punto di riferimento nel caos del mondo.