Chiaro che il titolo giochi sull’importante cognome del soggetto narrato, ma King of the Movies, documentario sul magistero di Henry King, racconta, in fondo, la storia di un regista che non è mai stato re. Pur essendo stato tra i fondatori dell’Academy, nonché considerato dalla stampa un “leading director”, non ha mai vinto un Oscar, nemmeno alla carriera. I suoi film hanno ottenuto, a loro tempo, ottimi riscontri al botteghino, ma oggi sono perlopiù rimossi: pensiamo a quanto sia finito nel dimenticatoio un bestseller dell’epoca come L’amore è una cosa meravigliosa (peraltro oggi impensabile: Jennifer Jones orientale!). Eppure è lo stesso King a dircelo: “sono solo un professionista, non ho fatto niente di speciale”.

In questo documentario del 1979, piuttosto classico nell’impostazione, che intreccia sequenze di film con pezzi di un’intervista allo stesso King, ormai elegante signore ultraottantenne con papillon al collo, l’operazione più interessante sta nella selezione del repertorio. Se la critica è anche l’arte di scegliere, King of the Movies dimostra una certa intelligenza nel far corrispondere il lucido flusso di ricordi portato in dote da King – piuttosto consapevole di essere una memoria storica, il testimone di un mondo perduto – con una sorta di attività didattica da parte del regista Philip Chilvers.

Poiché King ha attraversato mezzo secolo di cinema americano, iniziando la carriera nel muto e concludendola con l’evocativo Tenera è la notte (con la sua protetta Jones, battezzata in Bernadette) dopo più di un centinaio di titoli dietro la macchina da presa, la selezione dei film tende sì a privilegiare le preferenze legittime o meno del regista stesso, ma aiuta a dare un’idea dell’intera storia del cinema americano. E in questa prospettiva il suggestivo incipit con Carousel, uno degli ultimi lavori di King, rutilante musical in cui troviamo Shirley Jones su una ruota sulla spiaggia, è il segno di un percorso eterogeneo, che ha intercettato i gusti del tempo seguendo la suprema convinzione per cui il pubblico ha sempre ragione.

Così, riscopriamo la carriera di un signore che passa dalla parabola rurale La pazienza di Davide, film della consacrazione, al fatidico mélo Stella Dallas (ritratto nella foto), per poi esplorare, dopo il passaggio alla Fox, il disaster movie ante litteram ne L’incendio di Chicago, il biopic politico Wilson, le sfumature dell’avventura ne Il cigno nero e Le nevi del Chilimangiaro, il western Romantico avventuriero fino ai grandi adattamenti letterari della maturità, su tutti Il sole sorgerà ancora, trasposizione da Ernst Hemingway ricordata per la struggente performance alcolica di Errol Flynn. Probabilmente le scelte sono dettate anche da questioni di diritti o dalla brevità del prodotto, ma danno comunque l’idea di un sommo professionista che ha sondato tutti i generi senza mai tradire la sua visione del cinema.

Attraverso l’esperienza di King, il film (breve: quaranta minuti che sembrano un’ipotesi di video saggio, quasi l’abbozzo di un’autobiografia didattica) non solo coglie l’occasione per raccontare – anche se solo per cenni – la politica degli studios e il divismo della golden age, ma anche per studiare lo stile del regista, mediante sequenze rievocate o analizzate da lui stesso. Che, en passant, dispensa verità con la placida sicurezza dei grandi vecchi: “Director is a storyteller”, per esempio. Sembra una banalità, eppure.