Presentato alla Mostra di Venezia tra lacrime e sospiri del pubblico, La casa sul mare è il (per ora) ultimo frammento di quell’enciclopedia sentimentale che l’irriducibile, prolifico, ostinato Robert Guédiguian sta producendo dal 1980, cioè da quando lasciò la militanza attiva nel Partito comunista per declinare il suo impegno politico nel cinema. Non si tratta solo dell’ennesimo e necessario compendio di un lavoro inimitabile per la capacità di raccontare il disincanto e le amarezze di una generazione che, nonostante le complessità del presente, cerca di restare fedele agli ideali di gioventù, ma soprattutto l’apoteosi di un cinema vicino tanto al calore della famiglia quanto al modello della cooperativa.

Come sempre, Guédiguian misura il mondo secondo il metro della sua patria, Marsiglia, e per di più sceglie un titolo che indica precisamente il desiderio di accoglierci in un privilegiato universo narrativo e geografico. Benché qui non varchi quasi mai i confini di una zona piuttosto circoscritta, continua a parlare di quell’accogliente città portuale ed operaia che ormai vive solo nei suoi ricordi. Se già nel cupo e rapsodico La ville est tranquille (2001) era centrale il mutamento antropologico di una popolazione contaminata dal neofascismo, i germi del dubbio toccavano perfino gli umili e gentili proletari de Le nevi del Kilimangiaro (2011), chiamati a confrontarsi con i contraccolpi più concreti che una crisi economica può provocare in un’operosa e solidale comunità. In una stagione dominata da revanscismi e crisi ideologiche, Guédiguian mette in scena il privato per rinsaldare il suo sguardo militante e dire due o tre cose sulla famiglia, il passato, l’Europa che verrà. E l’amore, senza ripetere la commedia brillante alla Marius e Jeannette (1997) né una tragedia come Marie-Jo e i suoi 2 amori (2002): un caldo, rigoroso, appassionato melodramma corale su tre fratelli sessantenni al capezzale del padre in coma.

La casa sul mare, pensata in origine per accogliere la grande famiglia e dominata da un terrazzo circolare progettato dallo storico amico del babbo (anch’egli ormai anziano acciaccato che non vuole farsi aiutare dal figlio rampante: lo interpreta Jacques Boudet, alla dodicesima prova col regista), è diventata un luogo di assenze. Il primogenito (Gerard Maylen, diciotto volte con Guédiguian) gestisce un ristorantino senza guadagnare molto ma in autonomia rispetto al patriarca; il secondo (Jean-Paul Darroussin, sedici collaborazioni), fidanzato con una trentenne, cerca di scrivere un’autobiografia dopo essere andato in pensione forzata; la terza (Ariane Ascaride, moglie ed insostituibile musa per diciannove film), attrice di successo, è fuggita da un dolore troppo grande anche per una casa così ampia.

Da quasi quarant’anni, il cinema di Guédiguian si esalta grazie ai rapporti affettivi tra il regista e i suoi attori prediletti. Qui però si raggiunge un clamoroso apogeo: il flashback giovanile in cui appaiono i tre fratelli è un frammento di Ki lo sa? (1985), mitico epicentro della prima produzione del cineasta. Un metodo già usato ne La ville est tranquille, ma che in questo film-epitome trionfa in un emozionante cortocircuito: convocando il passato reale già sublimato nella finzione, Guédiguian si mette accanto agli amici attori che ripetono ipotesi di se stessi con un’estrema consapevolezza del tempo che passa. E pur firmando uno dei suoi film più personali evita l’autobiografia per tratteggiare invece un infinito autoritratto collettivo.

Attraverso la sua regia limpida e trasparente, si rispecchia nelle esperienze di coloro che sono rimasti e, individuando un nuovo senso del vivere comune di fronte alla disperazione di chi scappa per cercare altrove una speranza altrimenti impossibile, espone la realistica utopia di un altro futuro possibile. A mezzo secolo dal Sessantotto, ecco la sua evoluzione più toccante: sempre in fuga, ma verso una casa dove ripensarsi, accogliere, ricostruire.