Difficile iniziare. Proviamo dalla fine. “Per tanto tempo ho creduto che quella gioia molto infantile, quel piacere profondo, quel senso di essere a proprio agio soltanto sul set fosse finito per sempre. Da pochissime settimane, invece, c’è un’idea. Allo stato è molto embrionale, ma inizia a prendere forma. Non so cosa diventerà né che durata avrà, ma so che sono tornato a scrivere e a pensare che sì, un film posso e voglio ancora farlo” (Vanity Fair, 10 aprile 2018). È commovente leggere, in un’intervista di appena pochi mesi fa, che Bernardo Bertolucci aveva ritrovato il desiderio di lavorare ancora, a sei anni da quello che resterà il suo commiato, Io e te. Titolo che peraltro appare oggi davvero struggente per potenza evocativa e che segnava il suo ritorno sul grande schermo dopo quasi un decennio.

Può sembrare banale, ma per chi è nato negli anni Novanta o giù di lì ed era troppo piccolo per godersi Io ballo da sola o The Dreamers in sala, Io e te ha rappresentato la prima occasione per poter vedere un film di Bertolucci sul grande schermo. Essendo piuttosto recente in Italia la buona pratica di proporre sistematicamente i restauri dei classici del passato, è naturale che qualche giovane cinefilo abbia vissuto la sua prima volta con Novecento o Ultimo tango a Parigi, entrambi rieditati l’uno grazie alla Cineteca di Bologna e l’altro per merito del Cento Sperimentale, o con L’ultimo imperatore, ridistribuito in 3D.

Abbiamo finora citato solo sei film e se uno non lo sapesse si potrebbe perfino chiedere se siano diretti dallo stesso regista: la fuga di un adolescente dentro casa e una visita inattesa; l’educazione sessuale di una ragazza nella campagna toscana; un ménage a trois mentre divampa il maggio francese; l’epica saga popolare dei contadini emiliani dalla morte di Verdi alla caduta del fascismo; un devastante incontro parigino tra due corpi alla deriva tra erotismo e morte; un sontuoso kolossal che ripensa la biografia di Pu Yi. C’è qualcosa che accomuna non solo questi ma tutti i diciassette film realizzati in cinquant’anni di attività: credere nel cinema come dispositivo per creare mondi, restituire la visione di un paesaggio senza confini, raccontare iniziazioni, scoperte, spiazzamenti, spaesamenti.

È difficile scrivere in poche righe quanto Bertolucci abbia dato al cinema – e quanto il cinema abbia dato a Bertolucci. Lo stesso nome della nostra testata intreccia con lui una specie di legame intimo: il cinefilo affiora nel “non si può mica vivere senza Rossellini” che si sentiva in Prima della rivoluzione per poi detonare nel Jean-Pierre Léaud di Ultimo tango, ma di “cinefilia ritrovata” sono pieni il suo sterminato catalogo di madeleine derivato dai film del cuore (La regola del gioco, L’Atalante, Viaggio in Italia, La donna è donna e mille altre tracce…) e la galleria di fantasmi per  (Maria Michi, Fosco Giachetti, Yvonne Sanson, Sterling Hayden, Francesca Bertini…).

D’accordo che tutti i film hanno diritto al grande schermo, eppure con Bertolucci non si riesce davvero ad immaginare un altro luogo che non sia la sala cinematografica. Anche quando l’originale committenza avrebbe potuto limitarne lo sguardo, finisce sempre per pensare secondo la grammatica del cinema: se ne L’assedio la vertigine della spirale e la tensione alla verticalità spingono il film fuori dal piccolo schermo (infatti uscì in sala), in un capolavoro francamente definitivo come Strategia del ragno si scoprono tutte le coordinate per orientarsi nella complessa mappa sentimentale e politica di un autore cosmopolita quanto ancorata alla sua terra padana.

D’altronde non è proprio qui, in questa sempre spiazzante parabola sul mistero e sulla mistificazione, che fa convergere la memoria e la cinefilia? Accade in un luogo che non deve essere la natia Parma ma in cui si riflette sul conflitto col sistema paterno, chiamato come la tenuta di Via col vento e la dimora dei re irlandesi, un ideale teatro di posa dove mettere alla prova i limiti dell’inconscio e scoprire un’inattesa figura materna. Ed è proprio in questo cinema così attraversato dal confronto coi padri – solo una volta un padre è veramente un protagonista: ed è un uomo ridicolo – che la madre appare dirompente, emergendo nei corpi decadenti dell’ancor oggi supremo Il conformista fino a dominare La luna, tra i suoi film più nascosti e perturbanti.

È vero, come dice il gemello diverso Marco Bellocchio, che la sua morte è un po’ quella di una generazione che sta scomparendo, “il finale di partita di una vita che è stata, quasi per tutti, insieme commedia, dramma, tragedia e farsa”. In fondo, alla fine di questo lungo viaggio, dovremmo tornare all’origine, alle radici di un regista potente, influente, ammirato che si è sempre sentito totalmente figlio – come un po’ si percepisce in Io e te, la chiusura di un cerchio – dentro un incantesimo familiare quasi mai ravvisabile nelle sue storie. Viene, allora, in mente quello splendido ritratto con il papà Attilio e la mamma Ninetta seduti sul divano e i fratelli Bernardo e Giuseppe in piedi dietro di loro: nella tristezza dell’addio, è un’immagine che ci dà un po’ di pace.