Pur ricevendo il Premio per il miglior film italiano alla dodicesima edizione della Mostra del cinema di Venezia, La città si difende (1951) non fu generalmente apprezzato dalla critica italiana né nella cornice veneziana né all’uscita nelle sale. La Rivista del cinematografo ne individuava lapidariamente il difetto principale nella sua “quasi assoluta mancanza di ispirazione” e concludeva che era un film “su cui è bene non indugiare e per il quale anche in sede morale non può essere dato un giudizio positivo”. Anche a sinistra le critiche non furono positive e lo stesso Germi non lo riteneva uno dei suoi film più riusciti.

Certamente, queste valutazioni hanno contribuito al progressivo oblio a cui il film è stato consegnato, oscurando così anche quella rielaborazione di un immaginario noir attraverso modelli nazionali che il cinema italiano inizia a compiere fin dai primi anni Cinquanta e non soltanto dal successivo Un maledetto imbroglio (1959), sempre per la regia di Germi, solitamente onorato con la definizione di “primo poliziesco italiano”.

Una rielaborazione che, contro le accuse di scarsa ispirazione rivolte al regista, veniva esplicitamente messa in evidenza da Angelo Solmi su Oggi in una delle poche recensioni positive di La città si difende, descritto come un “un tentativo originale, impostato sul filone nostrano del realismo, e non una semplice copiatura dei modelli d’oltreatlantico”: “i personaggi […] sono veramente costruiti per vivere e per morire, con i loro lati buoni o cattivi, all’ombra dei palazzi delle nostre città e non dei grattacieli di New York o di Chicago”.

La vicenda di quattro uomini provenienti da diverse fasce sociali – dal proletario urbano immigrato dalla campagna al giovane ribelle piccoloborghese, dall’artista intellettuale all’arricchito decaduto – che si trovano a fronteggiare le conseguenze di una loro avventata e improvvisata rapina alla cassa dello stadio di Roma, fece sì che La città si difende fosse immediatamente collegato a Giungla d’asfalto (1950) di John Huston.

Per il titolo e per il comune interesse a un’indagine dello spazio urbano, alcuni recensori lo accostarono anche a La città nuda (1948) di Jules Dassin, che si apriva con la dichiarazione programmatica di mostrare la città come effettivamente era. Tuttavia, se l’itinerario urbano del film di Dassin seguiva il protagonismo della polizia nelle indagini contro il crimine, Germi sembra più interessato a mostrare la fatalità della cattura dei criminali, il cui tragico epilogo è scritto non tanto nei documenti della polizia quanto in un destino individuale. Alla panoramica iniziale a volo d’uccello su Manhattan del film di Dassin, una prospettiva che, seguendo De Certeau, ci mostra una città dominata e leggibile, La città si difende oppone significativamente una strada notturna avvolta nella nebbia, che ritornerà nella seconda parte del film nel tentativo di imbarco clandestino verso la Corsica di uno dei quattro criminali.

Più che essere associato a una prospettiva di controllo della polizia, lo spazio urbano sembra diventare una forza che agisce indipendentemente dall’autorità, spesso sovrastando e opprimendo i quattro uomini, come nelle inquadrature iniziali all’interno dello stadio, nelle scene girate nei cortili dei casermoni popolari o nella scena finale in cui la stessa sicurezza domestica è messa in discussione in un letterale e metaforico aggrapparsi alla vita.

Lo stesso soggetto del film inviato per la revisione preventiva presso la Direzione Generale dello Spettacolo descriveva la grande città e i suoi abitanti anonimi come un organismo portato, “per una sorta di intuito inconsapevole, a setacciare e a espellere dal suo grembo gli elementi perniciosi che compromettono il suo equilibrio e quello, pur lieve, della società nella quale si muove”. Tuttavia, è la città stessa, con la sua promessa illusoria di benessere da cui i quattro uomini sono esclusi, dai ristoranti che esibiscono cibo ai cartelli che promettono acquisiti a rate di mobili per la casa, a confinare i quattro all’interno di un margine da cui lottano invano per uscire.