Prima che il nome di George Andrew Romero venisse associato indissolubilmente ai suoi film di zombie, l’autore statunitense dirige una piccola gemma del cinema fantapolitico: La città verrà distrutta all’alba. A metà fra L’invasione degli ultracorpi e A prova di errore, il film racconta di un’arma chimica caduta accidentalmente nei pressi di una cittadina della Pennsylvania e dell’escalation di violenza che ne consegue. Da un lato troviamo l’esercito, repressivo e autoritario, inviato a contenere la popolazione e far detonare la città se necessario; dall’altro i civili piagati dal regime militaresco e dall’influenza dell’arma chimica, che li costringe in uno stato di isteria omicida.

Il soggetto originale, firmato da Paul McCollough, era incentrato sul punto di vista dell’esercito e sui suoi tentativi di insabbiare l’incidente. Ne risultava una storia antimilitarista tendente al complottismo, in linea coi valori sessantottini di quella parte della società statunitense in  protesta contro la guerra in Vietnam, ai tempi ancora in corso. Romero parte da un soggetto pienamente allineato alla sua sensibilità e lo arricchisce focalizzandosi su un piccolo gruppo di civili in fuga.

È proprio nella risposta dei personaggi alla repressione militare che emerge la personalità autoriale del regista, che non si limita a criticare le iniquità insite nelle strutture di potere, ma analizza l’inconscio collettivo statunitense. Nel successivo Zombi viene esplicitato come i morti viventi, una volta risorti e deprivati del senno, vadano ripetendo meccanicamente azioni compiute in vita senza intenderne il senso e le conseguenze. Gli isterici di La città verrà distrutta all’alba si comportano allo stesso modo, dando sfogo alle proprie pulsioni latenti. Il cinico pessimismo che contraddistingue le opere di Romero emerge qui dall’amara consapevolezza che questi invasati compiono azioni terribili, ma niente che non avrebbero voluto comunque fare.

L’esempio più incisivo di questo teorema è un padre iperprotettivo nei confronti della figlia, poco caratterizzato all’infuori di questo suo attaccamento morboso, che una volta contagiato tenta di violentarla. In questa invettiva contro la silent majority statunitense, le differenze psicologiche fra civili e militari vengono meno, l’infezione diventa l’innesco di un’ondata di disinibita onestà, tanto che la violenza si manifesta in forme affatto dissimili da quelle che costellano la cronaca nera (mariti che uccidono le mogli e si suicidano, civili armati fino ai denti che compiono stragi per “difendere” la proprietà privata).

Merita un discorso a parte la rappresentazione dell’inconscio femminile, ripresa dal precedente La stagione della strega, per cui in questo film le donne, una volta “impazzite” rimagono incatenate nella vuota ripetizione di quegli stessi gesti che le bloccavano nella quotidianità. Rappresentativa di tutta l’opera è infatti la scena in cui una donna spazza senza motivo un campo erboso mentre attorno a lei si consuma lo scontro armato fra militari per professione e militari per cultura, cioè quegli uomini contagiati dal virus, resi quindi indistinguibili dai propri aguzzini.