Questa è la storia di una donna, bellissima ed eterea, che vive solo nello sguardo di un uomo. E di un'altra donna, dozzinale e assassina, che vive solo per uno sguardo dello stesso uomo. Ma non è con revisionismo femminista che ci si possa accostare alle opere di Alfred Hitchcock (l'orribile scena di stupro coniugale in Marnie è lì a sedare ogni tentazione) e La donna che visse due volte non parla tanto di loro, quanto di quell'uomo e della sua debolezza rispetto alla sua identità maschile.

John “Scottie” Ferguson è sin dall'inizio un eroe danneggiato, un poliziotto che rivelatosi maldestro nell'inseguire un criminale ha causato indirettamente la morte di un collega accorso a salvarlo. Quando il vecchio compagno di studi Gavin Elster lo individua come testimone perfetto di un finto suicidio, lo sceglie non solo per l'acrofobia che non gli consente di salire oltre determinate altezze, ma perché sa che il tentativo di recuperare la perduta considerazione di sè lo renderà vulnerabile. Scottie, anche se non lo sa, brama di salvare la propria identità riuscendo a salvare una donna, e dunque Madeleine viene costruita nella trama e sullo schermo come una trappola a orologeria, quella del suo perfetto oggetto d'amore.

Si è molto parlato di necrofilia a proposito delle pulsioni di Scottie ne La donna che visse due volte, e l'avallo di tale interpretazione da parte di François Truffaut e di Hitchcock in persona l'ha stampata a fuoco negli schemi interpretativi senza appello. Ma si tratta di una forzatura tassonomica, per quanto intrigante. Scottie tende al superamento della morte, non all'immersione in essa: non solo nella manifestazione evidente del suo desiderio di salvare Madeleine dapprima, e di riportarla in vita tramite Judy poi, ma nei motivi della sua attrazione per lei.

Madeleine è bellissima, gentile, sensibile. È evidentemente attraversata da una pulsione di morte, ma la sua figura è trascendente, non funerea. In lei la morte esiste ma si riconduce al senso ultimo delle cose, e la sua stessa possessione da parte di Carlotta Valdes sottintende una natura ricorsiva dell'esistenza. Eterna come l'amore stesso, Madeleine vaga accarezzata da un alone di luce per le vie della città. Non trova posa fra le ordinate e ordinarie casette tutte in fila, lei appartiene solo a luoghi sempiterni come il mare, le foreste secolari, i cimiteri, i musei, le chiese, le antiche dimore dalle storie oscure. Tutto in lei supera la realtà del mondo fisico, e la sua entrata in scena nel ristorante ce la disvela di profilo, una volta che si è avvicinata a noi, come un busto di statua immortale.

Nessuna è in grado di ispirare l'infinitezza dell'amore quanto lei: né Midge, la personificazione della brava moglie, brillante, allegra, solerte e devota, che esiste sempre e solo nella limitatezza di quattro mura, né Judy, fotografata senza magia fra le sue povere cose, persino dopo la trasformazione in Madeleine (tranne che nella scena dell'uscita dal bagno, dato che l'inganno per qualche fuggevole attimo può funzionare).

In tal senso Madeleine è l'essenza stessa dell'illusione del cinema, e Scottie non è più necrofilo di qualsiasi spettatore rimanga incantato a fissare sullo schermo Marilyn Monroe o Ava Gardner ad esempio, ben sapendo che le loro persone reali da decenni non sono più fra noi. Scottie è un uomo deluso da se stesso rispetto a un ideale maschile irreprensibile, che lo stesso cinema fra gli altri prodotti culturali ha contribuito a forgiare, che manipola senza pietà una donna vera, Judy, per trasformarla in una finta. La donna che visse due volte, come altre opere di Hitchcock, è meta-cinematografico nelle fondamenta, strutturato da carrelli e soggettive che mostrano lo sguardo di Scottie e l'atto di guardare, ma anche singolari inquadrature e movimenti di macchina che riflettono sull'osservare Scottie che sta guardando, compiacendosi della natura di voyeur sua e nostra.

L'acconciatura a spirale di Madeleine risucchia come una vertigine, il titolo originale del film, nel tentativo di comprendere cosa si muova dentro la sua testa. Ma se la sua presenza avvinghia, sono le sue parole a far sognare Scottie con la promessa che “da soli si può andare in giro, ma in due si va sempre da qualche parte”. Quando dunque l'amore salvifico, per l'altro e per sé, si rivela spirale incontrollabile di inganno, l'eroe corretto e valoroso si trasforma in un individuo frantumato che fa spavento. È nel trionfalmente fallico campanile che si è consumato il tradimento, e in nessun altro posto se non lì potrebbe avvenire la riparazione.

L'oltraggio di fondo non è il delitto di un'altra donna, tanto che il destino di Elster, il maggior responsabile, resta di scarso interesse. E lo scioglimento della vicenda non ha nulla a che fare con la soluzione del giallo, anticipata significativamente al momento dell'entrata di scena di Judy. Ciò che Scottie non perdona a quest'ultima è di avere ucciso Madeleine, e qualsiasi immagine accettabile di se stesso.

Nel romanzo da cui La donna che visse due volte è tratto, D’entre les morts di Thomas Narcejac e Pierre Boileau, il protagonista uccideva alfine la donna, dopo aver compreso la natura dell'inganno. Nel finale del film, a Scottie viene risparmiata l'onta di decadere dallo status di eroe con un escamotage brillante, che fa diventare Judy vittima della propria coscienza senza renderlo un assassino. Scottie supera la paura dell'altezza, dunque il danno è riparato. Judy è morta, quindi l'onore dovrebbe essere ristabilito. Forse è il più lieto dei finali possibili, eppure è così poco consolatorio che la pellicola ebbe un successo relativo e venne considerata un'opera minore di Hitchcock per molti anni.

In fondo anche il “dominatore dell'universo”, come ebbe a definirlo Jean-Luc Godard per la sua capacità di intercettare i gusti del pubblico pur portando sullo schermo le proprie personali ossessioni, poteva prendere ogni tanto qualche cantonata. Per fortuna però il tempo è galantuomo, e ha rimesso le cose al proprio posto nella Storia.