All’origine di Tony Manero ci sarebbe un certo Vincent, il miglior ballerino di New York City. Nick Cohn ne raccontò la storia sulle colonne del New York Magazine, in un articolo, apparso il 7 giugno 1976: sin dall’esplicativo titolo, Tribal Rites of The New Saturday Night manifestava una chiara ambizione antropologica. Quasi vent’anni più tardi, Cohn rivelò che Vincent era un’invenzione giornalistica creata dalla fusione delle caratteristiche di vari personaggi. Tuttavia, che importanza ha? Vincent, ormai, esiste: si chiama, appunto, Tony Manero. La febbre del sabato sera uscì un anno mezzo dopo la pubblicazione di quell’articolo, a cui evidentemente s’ispirava. Alla luce della confessione di Cohn, trasformando una leggenda metropolitana in realtà iconica, il film si propone come un’ideale propaggine culturale al testo d’origine.

John G. Avildsen, fresco del successo di Rocky, fu forse il primo ad intuirne il potenziale cinematografico: alla fine la regia passò a John Badham, britannico come Cohn, con un solo film all’attivo. Dell’epopea del pugile restò un poster nella camera di Tony, dove è affisso anche il manifesto di Serpico, film scritto dallo stesso sceneggiatore de La febbre, Norman Wexler. Un apparato iconografico che suggerisce il background intimo del personaggio, intriso di desiderio di riscatto e aderente al tessuto urbano e sociale. È però innegabile che l’effetto esplosivo riguardasse la musica, il ballo, lo “stare insieme”: il film intercettava i miti e i riti di una generazione ancora rebel without a cause a cui, in principio, la visione era parzialmente preclusa, poiché il realismo della messinscena indusse la censura a classificarlo R-Rated.

Dalle nostre parti, La febbre salì rapidamente. Nel fondamentale Dancing Days. 1978-1979. I due anni che hanno cambiato l’Italia (Laterza, 2009), Paolo Morando dedica un capitolo alla “Travolta-mania” che investì l’Italia alla fine del nostro decennio più cupo. Per capirne l’impatto, pensiamo che, nella sua ultima serie di concerti del 1978, perfino Mina si cimentò in una versione di Staying Alive. Una curiosità, certo, ma che dà l’idea del contesto: accanto all’inevitabile moda, il film riuscì ad andare in profondità, scatenando dibattiti e polemiche nelle pagine di costume e società, mentre la critica cinematografica non si esercitava più di tanto nell’analisi. Morando compendia le diverse posizioni, come gli intellettuali ostili all’“avanzata senza precedenti” e allo “sfoggio di mezzi e di strategie promozionali veramente galattiche” delle “multinazionali del rimbecillimento di massa” o il Manifesto impegnato a condannare la rappresentazione di una società “senza conflitti, senza ribellione, senza scontro né di classe né di generazione”. Proprio in quest’ultimo pezzo si cita una parola destinata a definire un intero periodo: riflusso.

Impreparata ai contraccolpi del fenomeno, l’estrema sinistra interpretò il rito edonista del ballo come “un fenomeno regressivo” che determinava il “ritorno al privato” (nello stesso anno sarebbe uscito Porci con le ali…). Tra coloro meno maldisposti, Pio Baldelli evidenziò la stretta connessione tra l’esigenza della condivisione e la mancanza del sociale, leggendo nel fenomeno il bisogno di “scacciare per una sera le angustie”, e Beniamino Placido riconobbe nel “desiderio di successo”, nel rifiuto dell’“ubriacatura ideologica” e nel recupero della “competizione ingrata e lacerante” le chiavi per superare le contraddizioni della cultura giovanile post sessantottina. Se La febbre riuscì ad installarsi nell’immaginario italiano fu anche per la capacità di raccontare comportamenti di massa tipici dei periodi di crisi. Ma, nel bene e nel male, in piena notte della repubblica, la prospettiva italiana delegò ad un proletario italoamericano il desiderio di chiudere con gli anni di piombo, eleggendo il ballerino a pioniere dell’evasione e profeta del riflusso, sulle note di un’indimenticabile colonna sonora.

A suo modo, John Travolto… da un insolito destino di Neri Parenti ne indovina davvero una parafrasi in grado di svelarne i cortocircuiti: dentro questo post-musicarello, dal titolo solo superficialmente parodico, che stilizza il post-musical di Badham, Tony Manero ovvero John Travolta è un poster-icona. Il protagonista, Gianni, viene plasmato da un gruppo di ragazzi che al contempo richiamano alla comitiva di Manero e al suo pubblico adorante, la vittoria finale non è il successo agonistico ma la realizzazione amorosa. Curiosamente, è l’esordio di un regista destinato ad un cinema di pura evasione.