“L’ho ucciso per denaro e per una donna.
E non ho preso il denaro, e non ho preso la donna.
Bello, vero?”.
Chi pronuncia queste parole – nell’incipit di La Fiamma del Peccato di Billy Wilder - affidandole in una confessione notturna al microfono del suo ufficio, è l’assicuratore Walter Neff (Fred MacMurray), trentacinquenne scapolo e forse “un pochino meno stupido” dei suoi colleghi. Con una pallottola in corpo e l’avvicinarsi della morte che gli taglia il respiro, Neff racconta del suo incontro fatale con Phyllis Dietrichson (Barbara Stanwyck) e del loro progetto di uccidere il marito per intascarsi i soldi dell’assicurazione sulla vita.
Billy Wilder, qui alla regia del suo terzo film - grazie anche all’apporto di Raymond Chandler che firma la sceneggiatura insieme a lui - entra direttamente non solo nel cuore del romanzo breve di James M. Cain “Double Indemnity”, da cui la pellicola è tratta, ma anche nel suo mondo letterario, dove ogni azione è dominata dai demoni dei soldi e dell’attrazione sessuale.
Siamo nel ‘44, Wilder interrompe temporaneamente la collaborazione con lo sceneggiatore Charles Brackett che non ama Cain e soprattutto quella storia maledetta, ispirata ad un fatto di cronaca realmente accaduto che aveva gettato scandalo sulla piccola borghesia di Los Angeles. Così il testo viene adattato dallo stesso Wilder e da Raymond Chandler, spesso in disaccordo fra loro durante la lavorazione, che danno però vita ad una sceneggiatura capace ancor oggi di incantarci per la sua freschezza, l’incisività e per i ritmi e i tempi straordinariamente perfetti. Cain aveva scritto il romanzo l’anno prima (in Italia uscirà solo nel ’66, prima col titolo italiano del film, La fiamma del peccato, e solo dopo molti anni come La morte paga doppio) e non era nuovo a trasposizioni cinematografiche: il suo Il postino suona sempre due volte, edito nel ’34, era già stato portato sullo schermo nel ’39 (da Pierre Chenal), nel ’43 (da Luchino Visconti che aveva ripreso molti spunti in Ossessione) e nel ’46 (da Tay Garnett) e sarebbe poi stato riproposto nell’81 (da Bob Rafelson) mentre il suo Mildred Pierce, pubblicato nel ’41, era in lavorazione e sarebbe uscito di lì a poco per la regia di Michael Curtiz.
Il film, ancor prima di essere film, è un incontro tra sguardi narrativi diversi: qui si ritrovano la curiosità di Wilder per l’ambiguità della natura umana, l’amore malinconico di Chandler per il rigore morale e il disincantato cinismo di Cain nel raccontare gli arrivisti. Il risultato di questo strano mix di ingredienti è uno dei noir più riusciti del cinema americano, dove una goccia di paura basta “per cagliare l’amore in odio”. Non è ancora un morto quello che racconta la sua storia in flashback - come sarà ne Il viale del tramonto - ma è l’ombra di un uomo che sta per morire. Già dai titoli di testa Wilder apre il film con l’ombra di un uomo con le stampelle che si avvina alla macchina da presa diventando via via sempre più grande, fino a fagocitare l’intero schermo e a sfumare in una Los Angeles notturna e febbricitante, fotografata da John F. Seitz in un bianco e nero che in alcuni momenti risente ancora degli echi impressionisti.
E la storia che racconta quest’uomo è quella di una discesa agli inferi senza ritorno, la storia di un vortice di morte che parte dalla giovane e spregiudicata Phyllis - una innaturalmente bionda ma sensuale e magnetica Stanwyck – e trascina nel gorgo altre vittime: il marito, la prima moglie di lui, l’amante (e nel libro si aggiungono addirittura tre bambini). “In me c’è qualcosa che ama la morte – fa dire Caine a Phyllis, adombrando in filigrana una figura da serial killer al femminile che il cinema del tempo non poteva ancora accettare - A volte mi vedo come la morte. In un velo rosso, aleggiare nella notte. Sono così bella allora. E triste. E ho tanta voglia di rendere tutti felici, portandoli con me nella notte, lontano da ogni pena, da tutta l’infelicità…”.
Un viaggio verso la morte che nel film rimane costantemente sospeso in un’aura di fatalità. Una fatalità che in effetti sostituisce la suspense, azzerata dalla confessione iniziale, ma non diminuisce la tensione claustrofobica che si respira durante tutto il film . E anche quando il raziocinio cerca inutilmente di farsi strada rimane sopraffatto dall’inevitabilità degli eventi: Neff non sente più i propri passi dietro di sé perché sa di essere un uomo morto che cammina.
A fare da contrappeso in questa continua tensione da una parte c’è la questione etica, incarnata dal collega di Neff, Barton Keyes (Edward G. Robinson) che cerca di smascherare le truffe forse più per rispetto alla legge morale che è in lui (come un “ometto” che gli pizzica il petto da dentro) che per devozione all’azienda per cui lavora. Una figura positiva, quella di Keyes, complessa, che nel romanzo arriva addirittura a dare una chance di scampo all’amico ormai condannato dall’evidenza dei fatti. Complessità che Wilder e Chandler decidono di sintetizzare ma non di cancellare, sottolineandola anzi nel dialogo finale del film, quando Neff rivolgendosi a Keyes dice: “Il colpevole che cercavi ti stava troppo vicino, al di là della scrivania”. Alla risposta di Robinson: “Ancora più vicino, Walter”, Neff risponde: “I love you too” che nella versione italiana viene tradotto con un debole “Sei un amico”.
Dall’altra parte c’è l’istinto, la pulsione animale ed erotica, quella cavigliera al piede di Phyllis che incanta Neff come un serpente con la preda, privandolo di ogni capacità di resistenza. Tanto che Wilder per presentarci Phyllis nelle prime scene usa un fuori campo, inquadrando non il volto ma le gambe che scendono le scale con la cavigliera incantatrice. E accanto all’istinto Cain inserisce l’aspetto ludico, del gioco, che sia il brivido del flirtare con una dark lady o l’adrenalina dell’ideare l’omicidio perfetto. Neff stesso nella sua confessione dice di aver commesso un omicidio per una donna ma anche per dimostrare la sua abilità, infatti si paragona ad un croupier del Casinò che conosce perfettamente tutte le regole del gioco e i trucchi.
Neff sa da subito che è difficilissimo ingannare l’assicurazione così come sa che sarebbe meglio mollare Phyllis come si molla “un attizzatoio rovente”. Lui sa perfettamente tutte queste cose ma sa anche che non riuscirà più a tornare sui suoi passi perché ormai un veleno è entrato in circolo nel suo sangue, perché il reale si confonde con la fantasia e perché “qualche volta l’omicidio ha il profumo del caprifoglio”.