“Del resto l’ho vista coi miei occhi a Cuma, la Sibilla penzolare dentro un’ampolla, e quando i fanciulli le chiedevano: "Sibilla, che vuoi?", lei rispondeva: "Voglio morire".
Petronio, Satyricon
Parlando del suo Nightmare Alley, Guillermo del Toro ha più volte ribadito di aver fatto un nuovo adattamento dell’omonimo romanzo di William Lindsay Gresham e non un remake della versione cinematografica di Edmund Goulding del 1947. Il romanzo, pubblicato negli Usa nel 1946, è rimasto inedito in Italia fino allo scorso anno, quando Sellerio ha dato alle stampe la versione italiana tradotta da Tommaso Pincio, che ne ha firmato anche la postfazione.
Per addentrarsi quindi nella fascinazione letteraria che ha portato del Toro a realizzare il nuovo film, può essere interessante ripercorrere la storia dal romanzo e del suo autore. Gresham nasce nel 1909 a Baltimora ma cresce a New York, dove muore nel 1962, ad appena 53 anni, suicidandosi in quello stesso Hotel Carlton dove anni prima aveva scritto Nightmare Alley. Il breve necrologio sul New York Times lo saluta come “romanziere, illusionista dilettante e grande conoscitore delle carte da gioco”. Personaggio eclettico e inquieto, dai mille lavori (dal venditore di elettrodomestici al cantante folk), dai mille interessi (dal marxismo allo spiritismo) e dai mille problemi (dall’alcolismo alla violenza fino alla paranoia ansiosa), Gresham nel 1939 si arruola come volontario alla Guerra Civile Spagnola.
Qui, parlando con un commilitone, scopre l’esistenza di uno strano personaggio che costituisce una delle maggiori attrazioni dei Carnival, i luna park itineranti. Si tratta del geek, un uomo disperato, spesso un ubriacone, che in cambio di poco denaro o di alcool sbrana polli e serpenti vivi, attirando la morbosa curiosità del pubblico. Questa sorta di freak - nel cui male di vivere forse un po’ si ritrova - lo colpisce al punto da ossessionarlo: “La storia del geek - scrive Gresham - mi ha perseguitato e alla fine, per sbarazzarmene, ho dovuto scriverne”.
Da questa figura mostruosa - ma anche dalla curiosità su chi la crea e chi la guarda - nasce quindi la scintilla alla base del romanzo. Nightmare Alley narra la storia di Stanton Carlisle, giovane di bell’aspetto ma senza soldi che - sopravvissuto all’amore distratto della madre, alla cieca violenza del padre e alla grande Depressione degli anni ’30 - segue il suo personale sogno americano da New Deal: diventa imbonitore in un circo, poi prestigiatore di successo, poi mentalista e infine, grazie all’aiuto della psicologa Lilith Ritter, spiritista che spilla quattrini ad anziani e imprenditori dell’alta società. Ma la sensazione che Stan si porta dietro fin dall’infanzia è quella di continuare a scappare in un vicolo da incubo, senza via d’uscita, in una corsa claustrofobica che non gli darà mai tregua.
Alla pubblicazione il romanzo riscuote un buon successo, inserendosi idealmente nel filone noir e hardboiled ma di fatto valicando decisamente i confini di genere. Nightmare Alley trova infatti assonanze con le opere di altri grandi scrittori che indagano il lato oscuro del mito americano come l’ossessione del successo e il prezzo da scontare per ottenerlo (pensiamo ad esempio al Jay Gatsby di Fitzgerald o alla Mildred Pierce di J. M. Cain). Ma con gli autori del suo tempo Gresham non condivide solo lo spirito inquieto e tormentato ma anche uno stile narrativo personalissimo, che spazia da un crudo realismo alla Steinbeck ad un flusso di coscienza a tratti febbrile che ricorda Faulkner.
Poco dopo l’uscita del romanzo, il produttore George Jessel porta Nightmare Alley all’attenzione del capo della Fox, Darryl F. Zanuck, mentre Tyrone Power si innamora a tal punto del personaggio di Stan che si propone come protagonista. Nel pieno del suo successo ma ormai soffocato dalla sua figura di personaggio positivo, Power vuole mostrare al pubblico la sua versatilità di attore in un ruolo più ambiguo. Forte del potere contrattuale da star, chiede di poter tornare a lavorare con Edmund Goulding, con cui ha appena girato il fortunato e sfaccettato Il filo del rasoio tratto dal romanzo di Somerset Maugham. Power sceglie un regista di origine britannica, attento ai personaggi bizzarri e con una certa sensibilità alla complessità delle storie che dirige. La sceneggiatura viene invece commissionata a Jules Furthman che ha il compito di ripulire il romanzo da tutta una serie di contenuti negativi quali alcolismo, spiritismo, manipolazione, truffa, perdizione e anche un certo compiacimento del male, tutti temi che in quegli anni faticano ad arrivare sul grande schermo.
Il film non trova il successo sperato anche se la critica successivamente lo porterà come esempio di uno dei noir più riusciti di quel periodo. “L’adattamento del romanzo […] è denso, conciso, ritmato in maniera eccellente, pieno di ellissi che stimolano l’attenzione dello spettatore” scrive Jacques Lourcelles. “Servita dalla magnifica fotografia di Lee Garmes - prosegue il famoso critico - la regia mobile, inquietante e glaciale di Goulding esplora i bassifondi dell’industria dello spettacolo americana. Fa del personaggio di Power un volto nella folla […] e poi lo trasforma in un uomo al di sopra della folla, perché in questo individuo complesso c’è anche un pericoloso senso di superiorità e di strapotere”.
Intanto i soldi che Gresham riceve dalle vendite del romanzo spariscono rapidamente: una casa troppo grande, problemi fiscali, il divorzio dalla seconda moglie (che poi a sua volta sposerà lo scrittore C. S. Lewis). E infine la diagnosi di un cancro alla lingua. La parabola maledetta di Stanton sembra rispecchiarsi in quella di Gresham. In una lettera del 1959 lo scrittore scrive “Stan è l'autore”. Dopo pochi anni si toglie la vita con un’abbondante dose di sonniferi. I biglietti da visita che ha in tasca recitano: “Niente indirizzo. Niente telefono. Niente lavoro. Niente soldi. Ritirato”. L’aura maudit del romanzo si riverbera anche sul film di Goulding. Dopo un breve passaggio sullo schermo, la pellicola sembra sparire dalla circolazione e negli anni più vicini a noi una causa tra gli eredi del produttore Jessel e la Twentieth Century Fox impedisce la sua diffusione in VHS fino a quando nel 2005 non viene rilasciata in DVD.
Guillermo del Toro si accosta al romanzo negli anni ’90 e ne rimane stregato. Non facciamo fatica ad immaginarlo immerso con piacere fra le pagine malate di questo libro, i cui ventidue capitoli si aprono ognuno con l’illustrazione di una carta dei Tarocchi. Il regista ritrova sicuramente temi a lui cari - il mostruoso, il deforme, il diverso, il misterioso - ma oltre che dall’opera letteraria rimane incuriosito anche dalla bizzarra vita dell’autore, tanto che recentemente ha dichiarato di volergli dedicare un documentario.
Dopo quattro anni di lavorazione, nel dicembre 2021 esce in Usa la seconda versione cinematografica di Nightmare Alley. Del Toro firma la regia e anche la sceneggiatura, scritta a quattro mani con la moglie Kim Morgan. La versione originale di 3 ore e 15 minuti arriva sul grande schermo ridotta di mezzora mentre il cast stellare vede come protagonisti Bradley Cooper nel complesso e ambiguo ruolo di Stan e Cate Blachett in quello della dark lady Lilith Ritter. La ricca trama lascia spazio ad una serie di ottimi comprimari, tra cui Toni Colette, che interpreta la generosa cartomante Zeena, David Strathairn, nei panni del vecchio ma elegante imbonitore Pete, e Rooney Mara, l’ingenua ma determinata donna elettrica Molly.
Il film si divide in una prima parte dedicata al mondo dei luna park itineranti, che sembra la più riuscita nel suo mettere a fuoco lo smarrimento di un’America post Depressione, pronta a tutto pur di uscire dalla miseria e da un futuro senza speranza. Partendo da questi carnival che si spostano di periferia in periferia, dai margini - e dagli emarginati - della società, il film passa ad una seconda parte ambientata in città, dove falsità, inganni e disperazione rimangono inalterate ma si confondono fra abiti eleganti, arredamenti ricercati e mazzette di denaro. E qui, dove ha inizio la parabola discendente del protagonista, il regista rende palese il suo omaggio al noir anni ’40, che cerca però di reinterpretare senza ricorrere agli stilemi classici del genere.
Del Toro ha esplicitamente dichiarato di non aver voluto inserire nessuna voce narrante esterna, nessuna strada notturna percorsa da uomini in cappotto, nessuna veneziana socchiusa da cui filtra qualche lama di luce, ma di aver invece voluto mantenere inalterato quel chiaroscuro, quella maniera obliqua che il noir ha di leggere la realtà. “Ho voluto fare un film - ha dichiarato - che fosse ambientato nel passato ma che parlasse del presente”. Un presente che il regista continua a raccontare attraverso la lente deformata di fauni, mostri marini, fantasmi e geek-mangiabestie.
Tutte creature che - vestite con l’estrema cura formale e con quella particolare magia cinematografica che contraddistingue Del Toro - abitano uno spazio sospeso fra realtà, illusione e finzione e al tempo stesso risultano allegorie di vita assolutamente attuali.