C’è questa storia che gira da un po’ di mesi, sul fatto che La forma dell’acqua abbia un debito di troppo nei confronti un testo di Paul Zindel, Let Me Hear You Whisper. Anche Jean-Pierre Jeunet ha accusato Guillermo del Toro di aver rubato una scena dal suo Delicatessen, quella in cui Sally Hawkins e Richard Jenkins mimano dei passi di danza guardando un musical in tv. Dulcis in fundo, ci sarebbe The Space Between Us, un corto olandese del 2015 su una donna delle pulizie che s’innamora di una misteriosa creatura anfibia… Insomma, mentre gli eredi di Zindel sono sul piede di guerra, gli autori del corto hanno ufficialmente convenuto con del Toro che trattasi di suggestione comune derivata da un analogo sistema di riferimenti e non di plagio. E Jeunet? Che si metta l’anima in pace, sottintende il regista messicano. E magari ha pure ragione.

Viene in mente Ennio Morricone, spesso perito in cause di plagio, quando dice che “le tematiche della musica popolare sono ormai esaurite”, mettendo di fatto in crisi l’istituto stesso del plagio. Non fraintendiamoci: i plagi esistono da sempre. E sì: ne La forma dell’acqua ci sono somiglianze molto precise con altri film. Tuttavia, dando per scontato la malizia che siano scopiazzature, non sarebbero un po’ troppo sfacciate? È facile dimostrare i limiti della fantasia setacciando il film alla ricerca di ricalchi, volendo depotenziare nei fatti il valore stesso del film. Meno facile accettare l’idea che La forma dell’acqua intenda rivelare sin dal titolo la sua indefinibilità. Che forma ha l’acqua? Nessuna. E – giusto per picconare la tesi – lo stato solido? Non perdiamoci. L’acqua – stato liquido, precisiamolo – assume sempre una forma mutevole: contenuta in un canale tendente all’infinito, in una goccia condensata sul vetro, in una stanza con la disperata ambizione di un acquario che sostituisca la vita.

Per del Toro, l’acqua è il cinema stesso, che prende la forma che noi vogliamo dargli. C’è cinema ovunque, qui. Lungo i corridoi dei laboratori, con colori, facce, feticci, manicheismi, paranoie tra John Frankenheimer e Sidney Lumet. C’è un cinema mediato, iconizzato, omaggiato nella sontuosa sala vuota del cinema Orpheum (!) dove si proiettano i peplum, nei televisori che trasmettono i film classici su piccoli schermi che ne limitano il sogno. Pur di espanderlo e riportarlo nel posto che gli spetta – sia pure il grande schermo di coloro che scelgono oggi di vederlo in sala – del Toro fa fuggire la coppia in un onirico bianco e nero: dentro quella casa – che ha già allagato la sala sottostante – accade l’unico momento in cui la protagonista emette suoni (canta) e la creatura può danzare da novello Fred Astaire.

Film diversissimi tra loro come Super8, Drive, Argo, American Hustle, Dark Shadows, Carol o La La Land, che vedono nel passato qualcosa di intimo ed impersonale, talvolta mancante di conflittualità (cosa che curiosamente non sempre accade nella miglior tv, da Boardwalk Empire al supremo Mad Men), ci dicono che il patrimonio cinematografico si presta ad essere un serbatoio di immagini retrò in grado di produrre un universo consapevolmente derivativo. La stessa creatura, la cui estetica rinnova quella del Mostro della laguna nera, è la spia di un cinema cosciente dell’irripetibilità del passato: tanto vale replicarlo. Ma potendo contare sugli occhi incantati di un autore che pratica ancora l’infanzia dello sguardo, con l’amore disperato di chi, nel cinema, vede non solo il tempio del desiderio dove ritrovare le madeleine infantili, ma anche il luogo in cui lenire i dolori di tutti i freaks del mondo.