“L'atto che io compio non è che un mezzo rivoluzionario per accelerare l'esplosione della verità e della giustizia” scrive Émile Zola il 13 gennaio del 1898 nel suo celebre J’accuse, dedicato all’affaire Dreyfus e pubblicato sul giornale socialista L'Aurore. Partendo da questo affaire Roman Polanski chiude noi spettatori dentro al suo claustrofobico L’Ufficiale e la Spia - le cui finestre non si aprono se non alla fine del film, in una meravigliosa scena in cui il protagonista si trova davanti ad una sorta di inquietante specchio - e ci lascia lì con la sua bomba pronta ad esploderci tra le mani: con il suo personale J’accuse, con tante domande e con poche risposte.
Il film prende inizio con un solenne campo lungo che ci conduce nel cortile ghiacciato dell'École Militaire di Parigi; lo spazio immenso è sovrastato da un cielo minaccioso e da una luce plumbea - magnificamente fotografata da Pawel Edelman - che ci terrà ostaggi fino alla fine del film. Siamo nel gennaio del 1895: davanti a centinaia di colleghi, Alfred Dreyfus, capitano ebreo dell’esercito francese sospettato di essere una spia tedesca, viene condannato per alto tradimento e pubblicamente umiliato: i gradi gli vengono strappati dalla divisa insieme ad onore e dignità. Alla condanna assiste l’ufficiale Georges Picquart, di cui Dreyfus è stato il non amato allievo. Pochi anni più tardi lo stesso ufficiale, divenuto capo di quell’unità del controspionaggio militare che aveva fatto condannare il giovane militare ebreo, scopre che la spia è ancora attiva e che i documenti usati come prova della colpevolezza di Dreyfus sono falsi. La sua integrità morale non gli consentirà di nascondere la verità e la giustizia, a costo di esporsi pericolosamente in prima persona.
L’esplosione della verità e della giustizia invocata da Zola sta di sicuro molto a cuore anche a Polanski, che del film non firma solo la regia ma anche la sceneggiatura insieme allo scrittore Robert Harris, autore dell’omonimo libro da cui la pellicola è tratta. Le due parole - verità e giustizia - sono pronunciate solo due volte nel film ma da due punti di vista assolutamente antitetici. La prima volta le pronuncia Auguste Mercier, generale dell’esercito e Ministro della Guerra, che “in nome della giustizia e della verità” consegna nelle mani di Picquart un dossier segreto, in realtà pieno di falsità e inesattezze. Dossier che costituirà la prova definitiva per la condanna di Dreyfus. La seconda volta è Picquart stesso che, per motivare le ragioni che lo hanno portato a prendere le difese di Dreyfus, sostiene di aver agito non a favore di un uomo, ma per onorare “la giustizia e la verità”.
Una giustizia e una verità che cambiano contenuti a seconda dei fini di chi le utilizza quindi, che hanno in sé il germe dell’ambiguità, della doppia valenza, della doppia interpretazione. Tema molto caro a Polanski, quello del doppio, che attraversa in tralice tanta sua filmografia - intensificandosi forse nelle pellicole più recenti come L’uomo nell’ombra e Quello che non so di lei - fino a diventare una cifra di lettura della natura umana più che della storia.
Il dialogo sul rapporto fra copia e falso, che si svolge al Louvre tra Picquart e un agente investigativo davanti ad una scultura romana ispirata ad un originale greco, è in realtà un motivo ricorrente che viene costantemente ripetuto in tutto il film: dalla scelta scenografica di riproporre quadri scenici tratti da famose opere pittoriche impressioniste (come quelle di Toulouse-Lautrec, Degas, Monet) a quella narrativa di disseminare la storia di ricostruzioni di documenti o direttamente di falsi.
Georges Picquart, interpretato da un intenso ma allo stesso tempo misurato e impenetrabile Jean Dujardin, si rivela il vero protagonista di questo film che fa quasi scomparire un Alfred Dreyfus congelato nella maschera di dolore e risentimento di un irriconoscibile Louis Garrel. Ma d’altra parte il personaggio di Picquart è inevitabilmente al centro della nostra attenzione in quanto depositario di un grande conflitto morale: vive nell’esercito e per l’esercito e tollera a fatica di avere nel suo corso un allievo ebreo, ma quando realizza che proprio a causa dell’esercito un innocente sta scontando ingiustamente una pena mentre il colpevole agisce ancora indisturbato, il suo senso dell’onore non gli consente di tacere.
Eppure Picquart è molto lontano dall’essere un personaggio positivo, Polanski ce lo propone in tutta la sua umanissima meschinità, nella sua quasi totale mancanza di sentimenti, nella sua determinazione a raggiungere gli obiettivi prefissati, nella sua assenza di pietas e nella sua cieca osservanza al dovere. E’ quasi irritato nello scoprire l’innocenza di Dreyfus ma sa che sarà suo dovere difenderlo; quando la sua amante ottiene il divorzio sa di dovere, anche se maldestramente e distrattamente, chiederla in sposa; durante un duello tende la mano al suo nemico, il maggiore Henry, ma solo per dovere nei confronti di un uomo disperato.
Agire in nome di giustizia e verità e agire la giustizia e la verità. Nello scarto apparentemente sottile, ma di fatto abissale, fra l’agire in nome di un principio e l’agire quel principio, ma anche nell’inevitabile ambiguità e nel margine di errore in cui l’azione umana concretizza ogni principio, sta forse la complessità, l’umanità, l’assoluta contemporaneità nonché l’urgenza narrativa, personale e universale, di L'ufficiale e la spia.