Nel suo saggio Camminare per la città, Michel de Certeau distingue due punti di vista per indagare lo spazio urbano: una visione dall’alto, che esprime il bisogno delle istituzioni ufficiali di controllare la città in una mappa leggibile, e una visione dal basso, a livello della strada e propria dei pedoni, che esprime invece una città in perenne movimento e che irrimediabilmente sfugge alle logiche di controllo dei pianificatori urbanistici. È indubbiamente questa seconda prospettiva che viene adottata da Fellini in Roma (1972), la cui narrazione visionaria frammenta lo spazio urbano della capitale in una serie di quadri che non si compongono mai in una sintesi finale. Al contrario, mischiando autobiografia e indagine documentaristica, questi conducono lo spettatore attraverso una città che si compiace del proprio caos, del “suo delirio ufficiale” per citare un attento testimone della vita urbana come Charles Baudelaire. La macchina da presa adotta quindi lo sguardo del flâneur, di colui che vaga per le vie della città senza una destinazione apparente, con il solo scopo di immergersi nei luoghi urbani per esaminare le contraddizioni della modernità.
“Praticare lo spazio”, afferma de Certeau, “significa . . . ripetere l’esperienza esultante e silenziosa dell’infanzia.” Roma parte proprio dall’infanzia con i ricordi autobiografici del regista: il mito di Roma, filtrato dalla provincia romagnola e dall’ideologia fascista. Successivamente, i tableau di Roma che mostrano l’arrivo del giovane regista nell’urbe ancora fascista e, parallelamente, senza alcuna linearità cronologica, la città degli anni 70, coeva al film, smontano qualsiasi senso di logico sviluppo urbano. Invitano lo spettatore a perdersi nel reticolo della metropoli, ad osservarne le dinamiche di sfruttamento attraverso le quali anche il desiderio e il sacro diventano mercato, come nelle sequenze sulle case chiuse e in quella della sfilata di moda ecclesiastica in cui la visionarietà del regista raggiunge il massimo grado.
La Roma di Fellini è davvero, sempre per tornare a Baudelaire, “un caleidoscopio dotato di coscienza”. Il regista mette in scena tutti gli stimoli e gli shock della (post)modernità: il traffico e i suoi rumori contrapposti ai monumenti della classicità (la sequenza che inizia sul Raccordo Anulare e finisce in un fitto ingorgo sotto il Colosseo e tutta la sequenza finale), le luci e le ombre della città, le vetrine, i cartelli pubblicitari e quelli elettorali in un accostamento che indica già la mercificazione della politica. Tutto questo, senza mai tentare di nascondere la macchina da presa, anzi esibendola in modo meta-filmico e richiamando quindi la dimensione di finzione e di inaffidabilità del narratore. Non a caso le ultime parole del film sono proprio quelle che Anna Magnani rivolge al regista, rifiutandosi di rispondere alle sue domande: “non me fido”.
Fellini sovverte la stessa monumentalità dei luoghi sacri e istituzionali di Roma, riprendendone nelle sequenze finali certamente la ieraticità e l’iconicità, ma mostrandone anche e soprattutto la fluidità e le possibilità di scomposizione e ricomposizione. Infatti, il loro montaggio in rapida successione, quasi rocambolesco, dopo la breve apparizione di Anna Magnani, icona cinematografica della Roma popolare, mentre il film segue un gruppo di motociclisti crea una sequenza filmica in cui, per usare le parole di de Certeaur, “il fruitore della città preleva frammenti dell’enunciato per attuarli in segreto” contravvenendo così alle regole di linearità e trasparenza delle narrazioni ufficiali della città solitamente associate con quegli stessi luoghi. Sempre seguendo de Certeau, possiamo quindi dire che in Roma Fellini “crea nella città pianificata una città ‘metaforica’ o in spostamento, così come la sognava Kandinsky: una grande città costruita secondo tutte le regole dell’architettura è improvvisamente scossa da una forza che sfida i calcoli”.