Nell’anno della scomparsa di Vittorio Taviani, Venezia Classici coglie l’occasione di ricordarlo proponendo La notte di San Lorenzo, diretto naturalmente assieme al fratello Paolo e restaurato dall’Istituto Luce con la Cineteca Nazionale. È suggestivo rivedere oggi il più famoso e forse amato tra i film dei fratelli toscani, premiato a Cannes 1982 con il Grand Prix dalla giuria presieduta da Giorgio Strehler. Non tanto per la dimensione poetica e il suo apparato simbolico, certo l’aspetto più affascinante di un racconto popolare filtrato dagli occhi innocenti dei ragazzini, come quelli dei registi all’epoca dei fatti, quanto proprio per la complessità storiografica dell’episodio rievocato.

Al centro della vicenda c’è la strage del Duomo di San Miniato del luglio 1944, attribuita dalla popolazione ai nazifascisti e invece causata da una granata accidentalmente sparata dall’artiglieria americana. La questione ha infervorato gli animi per decenni, diventando oggetto di varie commissioni d’inchiesta, ed è stata chiusa solo negli ultimi anni con il definitivo riconoscimento delle responsabilità degli Alleati.

Poiché il padre partecipò alla prima commissione d’inchiesta e i registi stessi già realizzarono nel 1954 un corto sul fatto, ai Taviani è probabilmente più che chiaro il problema. Non sono interessati alla storia da documentare, sono interessati allo sguardo della povera gente, alla tragedia di un popolo in fuga che non si sente più al sicuro nemmeno dentro la chiesa. Se la storia ufficiale ha dimostrato l’estraneità nazifascista in quel determinato evento, è comunque indiscutibile che la storia degli uomini in quel momento sia stata così condizionata dai nazifascisti al punto da non avere dubbi nell’incolparli dell’eccidio. Lo stesso coinvolgimento in sede di sceneggiatura di Tonino Guerra suggerisce il soffio poetico che intendono conferire alla rielaborazione della realtà.

Attraverso la rilettura mitologica dello scontro – resa iconica dall’immagine più celebre: il fascista trafitto dalle lance come in una fiaba – benché con qualche concessione al sentimentalismo e un vago sentore di retorica pur ben addomesticata, i Taviani raggiungono una mirabile e straniante sintesi tra l’enfasi e la memoria, l’intimismo e il realismo, la coralità e la solitudine, il ripensamento epico e il lirismo struggente, la secchezza a tratti sconcertante della morte accanto e l’imprevisto afflato seducente di un’ennesima estate bellica lontana dai piaceri (anche della carne).

Inserito in una cornice votata all’oralità sotto le stelle cadenti, che indica il pubblico elettivo a cui vogliono riferirsi, i Taviani girano nei luoghi a loro cari, “nei dintorni di Firenze” come recitano i titoli di coda, veicolando un’autenticità al meglio sostenuta dalla calda fotografia di Franco Di Giacomo e dalla presa diretta, interrotta solo dalle apparizioni di Margarita Lozano doppiata da Vittoria Febbi.