Quella di Matteo Garrone è una carriera estremamente interessante da studiare in un’ottica di sperimentazione e di eclettismo. Nei suoi oltre vent’anni di carriera Garrone ha cambiato genere cinematografico molte volte, finendo così per essere associato non tanto ad una tipologia di racconto, quanto ad una precisa prospettiva artistica sul mondo.

Garrone non ha studiato cinema; la sua formazione è nella pittura e ciò è evidente in tutti i suoi film: la cura dell’immagine e dei colori e l’utilizzo dello spazio che si ritrovano nei suoi lavori sono sempre sintomi di uno sguardo consapevole e attento alla dimensione innanzitutto visiva del cinema.

A conferma di ciò, il suo primo lavoro da regista è già un piccolo successo: Silhouette (1996), primo cortometraggio di Garrone, vince il Sacher Festival di Nanni Moretti. Sempre nel 1996 Silhouette diventa uno dei tre episodi che compongono il primo lungometraggio del regista, Terra di mezzo. Questo film, così come Ospiti (1998), contiene già due aspetti della poetica di Garrone. Innanzitutto l’interesse per il racconto degli ultimi, dei freak, degli emarginati, di coloro che devono lottare tutti i giorni per il proprio posto nel mondo.

Sia Terra di mezzo sia Ospiti raccontano storie di immigrati in Italia, i quali si barcamenano tra le difficoltà del quotidiano, muovendosi spesso lungo un orizzonte di illegalità che sembra essere la loro unica possibile via. Ospiti, inoltre, presenta per la prima volta una tipologia di personaggi ricorrente in Garrone, che tornerà poi in Gomorra (2008), Il racconto dei racconti (2015) e anche in Io capitano (2023), quella della coppia di amici, uniti da un rapporto strettissimo, che grazie al reciproco sostegno riescono a reagire alle sfide della vita.

L’altro aspetto che già emerge in questi film è la mano documentaristica con cui dirige Garrone. La macchina da presa del regista osserva la scena lasciando che siano gli attori a guidare la composizione delle inquadrature; allo stesso modo la recitazione è quanto di più spontaneo possibile, grazie a battute che spesso sono improvvisate, che si basano su un canovaccio o, nel migliore dei casi, su un copione a cui agli attori è proibito avvicinarsi durante le riprese.

Proprio questa natura documentaristica, osservazionale, è alla base della fortuna del suo primo grande successo internazionale, Gomorra. La novità di Gomorra sta nell’aver compiuto uno scarto rispetto alla tradizionale rappresentazione cinematografica della mafia, che tendeva verso il melodramma, proponendo invece un film che racconta con oggettivo distacco le attività criminali della camorra.

Un celebre saggio di Dominic Holdaway mette in evidenza come, in realtà, specifiche scelte registiche nel film rivelano una presa di posizione di Garrone nei confronti di quanto racconta. Questo è vero, ma è innegabile che il giudizio dell’autore è fortemente mitigato proprio dalla dimensione osservativa che si ritrova nella pellicola.

Allo stesso tempo questo carattere documentaristico è sempre stato accompagnato nel cinema di Garrone da una notevole cura dell’immagine, figlia proprio del passato da pittore del regista, che rende le inquadrature espressive e pregne di significato. Proprio l’impatto visivo, che spesso trascende i limiti del realistico per farsi pura illustrazione, ha contribuito allo sviluppo di letture “fiabesche” sull’opera di Garrone. Queste letture hanno messo in luce quanto il suo cinema si rifaccia spesso e volentieri ai paradigmi delle fiabe popolari, che traducono i fatti di cronaca su cui si basano i suoi film in racconti universali.

La particolare estetica qui descritta è stata di ispirazione per tanti altri registi contemporanei, quali i fratelli D’Innocenzo, Claudio Giovannesi o Jonas Carpignano. Nel corso degli anni, tuttavia, abbiamo assistito ad una progressiva mitigazione della regia documentaristica da parte di Garrone. A partire da Il racconto dei racconti le inquadrature si sono fatte meno spontanee e più classiche, lasciando il carattere realistico e documentario quasi esclusivamente al profilmico.

Le ragioni sono diverse: innanzitutto Garrone si è a poco a poco internazionalizzato, prima con Reality, sua prima co-produzione internazionale, poi proprio con Il racconto dei racconti, film girato interamente in inglese e con attori stranieri. Infine, Io capitano è addirittura girato all’estero, prima volta per il regista. In secondo luogo, i film si sono fatti sempre più ambiziosi, hanno iniziato a proporre generi insoliti non solo per il suo autore, ma per il cinema italiano in generale, comportando un aumento dei budget e della complessità.

Malgrado i cambiamenti, la personale poetica di Garrone è rimasta la stessa. Se il racconto degli ultimi è senza dubbio un’efficace chiave di lettura sulla filmografia di Garrone, un’altra interpretazione altrettanto valida è quella che legge il suo cinema come un cinema del desiderio. Tutti i film di Garrone ruotano attorno a personaggi che desiderando ardentemente qualcosa che non hanno e fanno di tutto per ottenerlo. Si potrebbe obbiettare che tutti i film, tutte le storie raccontano di personaggi che desiderano qualcosa, ma nei film di Garrone il desiderio non è un semplice motore narrativo, è l’elemento che dà senso all’intera narrazione.

Pensiamo ai giovani protagonisti di Gomorra, che desiderano diventare dei gangster come Tony Montana (metaforicamente desiderano diventare uomini) e per via di questo desiderio vanno incontro alla morte; o al protagonista di Reality, il cui desiderio di entrare al Grande Fratello si trasforma presto in un’ossessione; alla regina interpretata da Salma Hayek in Il racconto dei racconti, che desidera più di ogni altra cosa essere madre e, quando finalmente dà alla luce un figlio, brama così tanto il suo amore da trasformarsi in un personaggio maligno; il Geppetto di Roberto Benigni, che a sua volta desidera avere un figlio, Pinocchio, il quale desidera essere un bambino vero; o i due giovani protagonisti di Io capitano, che desiderano raggiungere l’Europa e per questo si avventurano in un viaggio ricco di pericoli.

Il desiderio e l’ossessione sono la spina dorsale dei film di Garrone e il materiale che dà vita a dei personaggi tragici ed estremamente umani. Ancora una volta torna in scena la parentela con la fiaba e la sua naturale capacità di raccontare le pulsioni umane: il cinema di Garrone è fatto di fiabe contemporanee, che mettono in scena i lati oscuri del mondo di oggi, rendendoli però caratteri universali e senza tempo.