Senza troppi giri di parole, sappiamo qual è il cuore della faccenda. Ed è proprio l’animale del titolo. Chi conosce l’universo narrativo di Zerocalcare sa che l’armadillo è un personaggio visibile solo al protagonista, alter ego dell’autore, coscienza critica che gli sta accanto o addosso occupando spazi della realtà. L’immagine iconica funziona perfettamente nel graphic novel, come pure le altre invenzioni che prendono in prestito cartoon noti o convocano animali al posto delle persone, ma al cinema ha ovviamente bisogno di un ulteriore ripensamento per determinare un immaginario credibile, specie se non abbiamo una solida tradizione di film a tecnica mista a cui riferirci.

La scelta adottata dall’adattamento de La profezia dell’armadillo è piuttosto intelligente per quanto rischiosissima: far recitare l’animale ad un attore, nascosto dentro una sorta di costume di carnevale, con un pesante carapace e una maschera stilizzata. Sotto l’armadillo c’è Valerio Aprea, un ottimo caratterista che esprime benissimo l’anima romanocentrica di un film tenero e spericolato nel sintonizzarsi su un registro aderente al reale che probabilmente scontenterà i fan.

La sceneggiatura di Michele Rech (ovvero Zerocalcare, accreditato col nome vero), Oscar Glioti, Valerio Mastandrea e Johnny Palomba adatta il testo senza cavalcarne la dimensione fumettistica, trovando sponda nella regia del debuttante Emanuele Scaringi, più interessati a tessere un coming of age sulla ricognizione del dolore e sull’assunzione di responsabilità secondo lo sguardo di Zerocalcare che a trasferire pigramente sul grande schermo le strisce. Simbolicamente è aperto e chiuso da frammenti animati: all’inizio sembra quasi un modo per interrogare il pubblico e le sue attese, presagire un’ipotesi di film non realizzato per quanto più coerente con la fonte; alla fine, invece, chiude il cerchio riallacciandosi alle origini, lasciando alle immagini di Zero il racconto dolceamaro di certe frustrazioni generazionali.

Interessante anche il discorso sugli attori: se Simone Liberati e Pietro Castellitto trovano un giusto equilibrio seguendo il riferimento grafico (le sopracciglia, le magliette, la magrezza) in una reinterpretazione realistica (ma Castellitto indovina un afflato grottesco sorprendente), Laura Morante reinventa a suo modo una madre disegnata come la Lady Cocca di Robin Hood e qui tramutata in persona. Cinghiale purtroppo è solo evocato. Magari qualcosa non si comprende fuori dal Gra, come l’ansia per la trasferta a Roma nord o le chiacchiere sui quartieri, e forse resta un po’ l’impressione di una costruzione per sketch, ora divertente ora malinconica, fedele al testo quanto rigida. Però non si può dimenticare la sublime apparizione di Adriano Panatta.