No, non c’è alcuna equiparazione fra vittime e carnefici ne La scuola cattolica di Stefano Mordini, e il divieto ai minori di diciotto anni per la scena della lezione di storia in cui si mettono sullo stesso piano Gesù e i suoi aguzzini è effettivamente insensato. In quella scena, senz’altro irrisolta, si apre sì un grande equivoco, ma che questo abbia davvero potuto contribuire a deviare delle giovani menti fino all’orrore di cui si dimostrarono capaci, come suggerito da Mordini, è poco plausibile. Il problema, dunque, sta nel percorso a orologeria, coerentemente soffocante e orrorifico, dell’individuazione delle origini della violenza, che fallisce più che altro nel non rendere i carnefici sufficientemente spaventosi e bestiali, mantenendo le loro psicologie nell’ombra.

Saggiamente il regista e gli sceneggiatori di La scuola cattolica non ci mostrano tutte le efferatezze cui furono sottoposte nel settembre del ’75 Rosaria Lopez e Donatella Colasanti durante il massacro del Circeo, relegandole nel “non filmabile”. L’orrore è racchiuso nella struttura circolare del racconto, che parte proprio dal bagagliaio serrato di quella Fiat 127 per farvi ritorno ad aprirlo alla fine del film e lasciarne emergere moribonda Donatella, il cadavere di Rosaria e con i loro corpi le ipotesi sui motivi della ferocia, l’uscita fisica dalla mattanza e l’entrata in un successivo terrore.

Lo racconta la voce narrante del film, l’adolescente Edoardo Albinati, nella finzione compagno di scuola di Izzo, Ghira e Guido e nella realtà effettivamente studente della stessa scuola cattolica romana in cui i tre si diplomarono qualche anno prima di lui e autore da adulto del libro da cui il film è tratto. Fu un delitto politico nello sfondo dell’Italia degli anni ’70 alimentato da rigurgiti neo-fascisti e lotta di classe? Una violenza di genere in un clima contraddittorio sia di repressione bigotta sia di libertà sessuale nascente? Strafottenza di ragazzi ricchi e viziati, già pericolosamente vicini a reati e carcere? Opera di rampolli di famiglie di padri assenti o di problematica virilità e madri evanescenti o carnalmente umilianti? Ognuna di queste cose, nessuna più delle altre, motivo di depravazione per un ragazzo e di rettitudine per un altro, come in Elephant di Gus Van Sant. Diversamente da questo, l’orrore di La scuola cattolica arriva però proprio perché preparato dal contesto, non inspiegabile e privo di logica come la strage a scuola per il regista americano.

Tutto all’epoca del Circeo sembrava spingere in modo convergente verso un esito raccapricciante di ultraviolenza, che era nell’aria: tensioni politiche, sessuali, familiari, educative. La scuola cattolica frequentata dai pariolini era una scuola privata, di chi era sufficientemente ricco da pagarne la retta per farsi promuovere. Doppia morale e contraddizioni valoriali albergavano striscianti in quell’ambiente in cui il sesso faceva capolino nella frequentazione di prostitute da parte dei preti, in un padre devoto costretto a soffocare istinti sani, in un altro che viveva in una mite apparenza familiare la sua omosessualità, in un altro ancora convinto che essere uomini significasse non avere emozioni. Sotto queste ceneri covava la devianza totale della generazione dei figli, pronta ad esplodere.

Il film individua l’ambiguità ideologica e sessuale dell’educazione familiare e scolastica, mentre l’influenza del clima politico sul delitto, fondamentale secondo Donatella Colasanti, è confusamente accennata. Per lo spettatore, però, il vero assente è l’approfondimento del sadismo psicopatico dei tre assassini, e ancora di più un’ipotesi sulla possibile dinamica fra questo Male e la società italiana degli anni ’70. Senza questa, gli occhi spiritati di Izzo, i modi da Hannibal Lecter di Ghira e la cena in famiglia di Guido subito dopo il massacro restano elementi asettici che non escono dallo schermo agghiaccianti quanto davvero necessario.