“Come mi piace ricordare, più che vivere. Del resto, che differenza fa?”, pronuncia il personaggio di Roberto Benigni ne La voce della luna (1990), il film-testamento di Federico Fellini. Ed è in questa frase tanto nostalgica e sibillina che si può racchiudere buona parte dell’immaginario del maestro riminese: un’enunciazione dove il termine “ricordare” può essere inteso anche nel segno di “sognare”, visto che per il Nostro la vita è ricordo e sogno, e allo stesso modo i ricordi e i sogni formano la vita. Una poetica che ha accompagnato pressoché tutta la sua lunga filmografia, all’interno della quale c’è però un prima e un dopo, un momento dove il magma onirico, psicanalitico, surreale e soprannaturale ha preso definitivamente il sopravvento.
Parliamo di due film centrali nella sua opera omnia, il celeberrimo Otto e mezzo (1963), premiato agli Oscar come miglior film straniero, e un altro capolavoro forse meno celebrato ma egualmente importante nell’evoluzione del suo modo di intendere il cinema come atto magico, cioè Giulietta degli spiriti (1965), autentica quintessenza del mondo felliniano. Un’opera in cui, dopo i sogni di Mastroianni in Otto e mezzo, per la prima volta emerge in modo compiuto quel mondo nascosto, magico ed esoterico che tanto sarà predominante nelle future opere del regista, dal Satyricon al Casanova, da Toby Dammit a La città delle donne, fino al sopra citato La voce della luna.
Giulietta degli spiriti è frutto di una stesura a più mani – lo stesso Fellini scrive insieme a Tullio Pinelli, Ennio Flaiano e Brunello Rondi (regista del precedente Il demonio, un film seminale sulla superstizione popolare). Protagonista è Giulietta (Giulietta Masina), una donna di mezza età della borghesia romana il cui rapporto col marito Giorgio (Mario Pisu) è ormai logoro, tanto da sospettare che l’uomo abbia un’amante. La coppia si ostina però a conservare le apparenze di un matrimonio felice, organizzando nella loro lussuosa villa ricevimenti a cui prendono parte numerosi amici. Tramite Valentina (Valentina Cortese), sedicente sensitiva, e un medium ospitato durante una festa, Giulietta prende parte a una seduta spiritica dove evocano il fantasma di una certa Iris e di un tale Olaf, senza però ottenere vere risposte.
La vita di Giulietta prosegue nella sua routine quotidiana, fra gite al mare, passeggiate nei boschi, ritrovi con la madre e le sorelle, mentre il marito si fa sempre più distante. La donna consulta anche un veggente indiano, e nel frattempo la sua mente vaga nei ricordi d’infanzia, quando fu educata in un collegio di suore e subì il trauma di vedere il nonno fuggire con una ballerina. Per chiarire i dubbi riguardo alla presunta infedeltà del marito, lo fa pedinare da un investigatore privato, che gli conferma i suoi sospetti: Giorgio ha un’amante. Giulietta inizia a frequentare Susy (Sandra Milo), una vicina stralunata, che la vorrebbe introdurre in un mondo vizioso e farle trovare a sua volta un altro uomo, ma si ritira in tempo, disgustata, e grazie all’aiuto di una psicanalista riesce forse a trovare la tanto agognata serenità interiore.
Dopo i primi film, dove gli squarci surreali e onirici si inserivano in un contesto più realistico (pensiamo a Lo sceicco bianco e La strada), con Giulietta degli spiriti il mondo del sogno e dell’esoterismo si fa strada in modo preponderante (fin dal titolo) nella cinematografia di Fellini. Giulietta Masina diventa la protagonista assoluta, ed è il primo lungometraggio girato a colori dal maestro (dopo il mediometraggio Le tentazioni del dottor Antonio, una fantasia pop-psichedelica facente parte del film collettivo Boccaccio ’70). I cromatismi diventano fin da subito una componente essenziale nel cinema di Fellini, e la fotografia (in Technicolor) di Gianni Di Venanzo, dai colori saturi e sgargianti che rendono tutto irrealistico (o iperrealistico), è una peculiarità di Giulietta degli spiriti che tornerà più volte nei suoi film successivi.
Due componenti fondamentali, oltre alla fotografia, sono i costumi e le scenografie di Piero Gherardi (entrambe candidati agli Oscar), che danno vita a un impianto visivo pantagruelico, strabordante, un vero bombardamento sensoriale che è già di per sé un valore assoluto. L’impianto scenico assurge qua a componente essenziale del film, pura arte visiva che diventa una vera gioia per gli occhi, in virtù di uno stile barocco spinto all’estremo, un gusto per l’eccesso che trova la sua ragion d’essere proprio nel parossismo visionario, senza però sfuggire dalle mani salde della regia di Fellini. Giulietta degli spiriti è un film orgogliosamente eccessivo e sfarzoso, pieno di sequenze fantasiose, grazie a scenografie fastose e costumi sgargianti, popolate da personaggi grotteschi, con inquadrature che diventano sature di persone e oggetti: definizioni con le quali, in sostanza, si identificano la maggior parte dei suoi film successivi. Un Fellini così non si era mai visto, neanche in film già visionari come Le tentazioni del dottor Antonio e Otto e mezzo, ed è anche per questo che Giulietta degli spiriti sancisce un prima e un dopo nella sua vasta filmografia.
“Anche” per questo si diceva, ma non solo, perché nel nostro film forma e sostanza vanno di pari passo, e il gusto parossistico e visionario è funzionale alla messa in scena di un mondo “altro”: un universo alieno che prosegue sulla strada intrapresa da Otto e mezzo (ricordiamo Mastroianni che dialoga con i genitori defunti) e ne amplifica le conseguenze fino a sconfinare palesemente nei territori del fantastico, del mistero e della magia (evidenti metafore psicanalitiche), dei sogni e dei ricordi, che nell’opera formano un tutt’uno senza soluzione di continuità. Recentemente, la critica cinematografica Anselma Dell’Olio ha diretto un interessante documentario, Fellini degli spiriti (2020), che indaga i rapporti del cineasta con il mondo onirico, soprannaturale, esoterico e psicanalitico: il fatto che Fellini fosse appassionato di magia ormai non è un mistero, basti pensare agli stretti rapporti intrattenuti con il sensitivo Gustavo Adolfo Rol.
La psicologia (o, per l’esattezza, la psicanalisi) non è intesa da Fellini come una scienza esatta, quanto piuttosto una continuazione, un trait d'union, col mondo della magia e del soprannaturale, per cui lo spiritismo, i sogni e i ricordi sono come facce della stessa medaglia, di quel mondo “altro” che lui si proponeva di indagare non solo attraverso i suoi film, ma anche nella vita quotidiana. Ebbero un’ampia influenza su di lui le teorie dello psicanalista junghiano (dunque, opposto a Freud) Ernst Bernhard, ma anche esperienze più estreme: l’uso controllato di LSD, l’avvicinamento alla magia, ai tarocchi, alle sedute spiritiche (e torniamo alla figura fondamentale di Rol), insomma tutto ciò che concerne la ricerca di dimensioni “altre”, la trascendenza, l’indagine su cosa c’è dopo la morte. Alla luce di questo, è quindi palese la primaria importanza che Giulietta degli spiriti costituisce non solo per il suo modo di vedere il cinema, ma anche per la sua interpretazione della realtà – vita e cinema in Fellini spesso vengono a coincidere.
E proprio a una seduta spiritica è dedicata una delle prime sequenze del film, girata come un horror gotico, con i giochi di luci e ombre, i colpi che si sentono sul tavolo, le invocazioni del medium e dell’amica (la diva Valentina Cortese, sempre in stato di grazia), dove lo spirito di Iris invita all’amore per tutti. C’è poi tutta una lunga e significativa sequenza girata con il guru indiano, con la quale ancora una volta il regista scava nel mondo dei sensitivi, non senza un filo d’ironia che ci fa dubitare su fino a che punto egli credesse veramente alla magia. Un veggente indiano che è insieme maschio e femmina (nella realtà, è interpretato dalla danzatrice tedesca Valeska Gert), e che proprio in questa ambivalenza suscita inquietudine, mentre con una voce altrettanto angosciante, attraverso rebus linguistici, suggerisce a Giulietta di farsi più piacente verso suo marito: perché la base dei tormenti della donna è data sempre dal sospetto – e poi dalla certezza – della sua infedeltà, per cui sono le convenzioni, i vizi borghesi e la sessualità repressa (frutto di una rigida educazione cattolica) a finire sotto la lente deformante e corrosiva del regista, mentre la protagonista respinge gli uomini che le si offrono.
Accompagnata dalle musiche vivaci e ballabili di Nino Rota (dirette da Carlo Savina), la regia dipana la vicenda attraverso una serie di macro-sequenze giustapposte – quasi a mo’ di episodi, con il sapiente montaggio “invisibile” di Ruggero Mastroianni – che riproducono il carattere assolutamente casuale e aleatorio dei sogni. Incontriamo una miriade di personaggi – ci sono anche la sorella (Sylva Koscina) e la madre (Caterina Boratto) – che sono personaggi della realtà e della mente, del passato e del presente, mentre realtà e sogni, allucinazioni e ricordi si confondono indissolubilmente in una serie di favolosi tableaux vivants composti da forme e colori barocchi. Giulietta (una straordinaria e composta Giulietta Masina, che domina il film in una delle sue interpretazioni più memorabili) è come una novella Alice, che proprio come il personaggio di Lewis Carroll si spinge in un immaginario paese delle meraviglie, un mondo che spesso assume la connotazione dell’incubo, attraversando un processo psicanalitico di guarigione interiore.
Basti pensare al ricordo ricorrente del periodo del collegio, con le inquietanti suore tutte bardate con abiti funerei di colore nero-violaceo – e le processioni di figure religiose sono scene ricorrenti nel cinema di Fellini (da Otto e mezzo a Roma), a testimonianza di un rapporto con la religione che rimane irrisolto. Religione e superstizione, sacro e profano convivono, si incontrano e si scontrano continuamente nella poetica del Nostro, e con particolare vigore in Giulietta degli spiriti, dove l’ingenua protagonista vaga di continuo fra sedute spiritiche e ricordi inquietanti della propria infanzia vissuta in un’educazione cattolica stringente – la sua recita scolastica nei panni della santa bruciata viva torna più volte sotto forma di incubi o allucinazioni della sventurata sul rogo.
Ci sono anche momenti immaginifici più allegri, come l’immancabile passeggiata felliniana in riva al mare, oppure il nascondiglio di Susy sull’albero, oppure ancora la villa della stessa Susy. Tutti luoghi ameni che diventano però sempre forieri di inquietudini (come la visione del cavallo morto e la donna pazza rinchiusa in una stanza) oppure di vizi (vedasi la parata di amanti appartati in casa), ai quali l’amica vorrebbe iniziarla dopo un’altra esperienza con dei sensitivi, prima che Giulietta fugga disgustata. C’è poi il ricordo circense (anch’esso tipicamente felliniano, da La strada a I clowns) del nonno e della ballerina (ancora Sandra Milo, impegnata in tre ruoli).
Tutte visioni e ricordi che si fondono con la realtà senza soluzione di continuità, in un unicum dove gli elementi visivi e narrativi sono giustapposti come nei rebus delle settimane enigmistiche: una donna a cavallo, un frate, un carro funebre, un’agghindata Sandra Milo che si dondola su un’altalena sospesa nel nulla, personaggi grotteschi di ogni tipo che si parano davanti alla macchina da presa in una fantasmagoria di elementi eterogenei. Tormentata da tutti questi ricordi e incubi, oltre che da una realtà insoddisfacente, la sventurata Giulietta cerca l’aiuto di una psicanalista, e il finale con la donna che si allontana a piedi lascia aperta ogni interpretazione, forse diretta verso la libertà o forse verso nuovi incubi.
Del resto, come scriveva il drammaturgo seicentesco Calderon de la Barca, “La vita è sogno”, e forse nessun regista come Fellini ha saputo tradurre così compiutamente questa massima.