Ladri di biciclette di Vittorio De Sica usciva nel 1948; sempre in quell’anno vedeva la luce anche La terra trema di Luchino Visconti, due film che rappresentano il punto d’arrivo del neorealismo, l’espressione massima dell’estetica che nel secondo dopoguerra aveva segnato il cinema italiano e mondiale.

Analizzare questi film attraverso la prospettiva della scrittura significa confrontarsi con questo punto d’arrivo, ma anche con la retorica che dipinge i film neorealisti in quanto opere libere da qualsiasi forma di sceneggiatura, frutto di una totale improvvisazione sul set. Niente di più sbagliato. È difficile individuare il confine tra verità e mito quando si parla di scrittura neorealista: è vero che molto di quanto accade su schermo è frutto di una buona dose di improvvisazione, ma allo stesso tempo i film di De Sica, così come quelli di Rossellini e altri, partivano sempre da una sceneggiatura solida, completa e dettagliata.

Dietro le quinte dei film neorealisti sono emersi sceneggiatori che poi hanno avuto il loro periodo d’oro con il cinema italiano successivo, per i quali l’aderenza al realismo non significava il rinnegamento della scrittura, bensì l’appropriarsi di situazioni vere, apprese durante la vita di tutti i giorni, frutto di incontri, testimonianze e osservazioni.

Suso Cecchi D’Amico è una di questi autori. Venne coinvolta nella scrittura di Ladri di biciclette da Cesare Zavattini, con il quale aveva già lavorato per Roma città libera (Marcello Pagliero, 1946). Inizialmente al fianco di Zavattini doveva esserci Sergio Amidei: i due erano al lavoro sull’adattamento di Ladri di biciclette, romanzo di Luigi Bartolini pubblicato nel 1946 che denunciava ciò che accadeva quotidianamente per le strade della Roma del dopoguerra.

Amidei, però, lasciò il progetto e Zavattini si rivolse a Suso Cecchi D’Amico. Insieme agli altri quattro sceneggiatori – oltre a De Sica, Oreste Bianconi, Adolfo Franci, Gherardo Gherardi, Gerardo Guerrieri – girarono in lungo e in largo per Roma raccogliendo spunti e suggestioni. Ladri di biciclette è un film pregno di storie reali raccolte dai suoi autori e rese, in qualche modo, eterne.

Come ha ricordato Caterina D’Amico, nessuno degli autori coinvolti era romano. Suso Cecchi D’Amico aveva vissuto a Roma, ma era di origine fiorentina. Eppure quella di Ladri di biciclette è una Roma estremamente autentica, viva, una Roma che esiste a prescindere dalla macchina da presa di De Sica. Vivi sono anche i personaggi, i quali hanno un passato e un futuro che non appartiene al film e che, per l’intera durata della pellicola, veicolano tutto il bagaglio culturale legato a Roma e soprattutto alle borgate del dopoguerra. Citiamo solo due scene, che in qualche modo danno conto dell’attenzione e della raffinatezza di una scrittura che appare spontanea, ma che in realtà si basa su uno studio e una ricerca di primo livello.

La prima è la scena della trattoria, dove Antonio e suo figlio Bruno si concedono una pausa dalla ricerca della bicicletta. Bruno nota al tavolo accanto un bambino che mangia una mozzarella in carrozza. Antonio percepisce il desiderio di Bruno e ordina per sé e per il figlio lo stesso piatto. Eppure non è difficile notare che il bambino al tavolo accanto è molto diverso da Bruno: i suoi abiti ci dicono che è di famiglia ricca; ci dicono soprattutto che i problemi che tormentano Antonio e suo figlio sono qualcosa di cui lui non farà mai esperienza. Bruno e Antonio, quindi, mangiano la stessa cosa che mangia quel bambino sconosciuto per accorciare la distanza che intercorre tra loro. Ladri di biciclette racconta, in questa scena, il divario di classe tra coloro che per sopravvivere hanno bisogno della bicicletta e tutti gli altri.

La seconda scena è quella conclusiva: dopo aver fallito il tentativo di furto, Antonio, umiliato e avvilito, viene consolato da Bruno, che lo prende per mano. Con questo gesto si ribaltano i ruoli tra padre e figlio; ad un livello ancora più profondo, questo gesto ci dice che Bruno deve essere adulto, che in quella Roma del 1948 non gli è concesso essere bambino. Ancora una volta un gesto che appare frutto della spontaneità racconta moltissimo dei personaggi.

Ci dice soprattutto che la chiave del neorealismo sono i bambini, la personificazione di un’infanzia negata e di un futuro incerto.