È in sala in questi giorni al Cinema Lumière una retrospettiva su Paul Thomas Anderson. Due collaboratori di Cinefilia Ritrovata sono andati a vedere Vizio di forma. A seguire le loro considerazioni.

Quando quattro anni fa Paul T. Anderson adattò per il grande schermo l’omonimo romanzo di Thomas Pynchon, rese evidente come nel 2002 quell’Ubriaco d’amore in cui Adam Sandler poté dimostrare la sua versatilità, avesse segnato uno spartiacque all’interno della sua filmografia. Dalle solide e compatte sceneggiature altmaniane di Boogie Nights – L’altra Hollywood e Magnolia alla concentrazione talvolta prolissa sull’individuo, seminale ne Il petroliere ed esasperata in The Master. Vizio di forma non è da meno.

Con l’allucinato peregrinare di un Joaquin Phoenix conciato come fosse il fratello hippie di Wolverine, Paul T. Anderson dilata i tempi fino a raggiungere una non-trama, di fatto il caso investigativo da risolvere è una matassa talmente ingarbugliata che né il protagonista né il pubblico ci capiranno mai nulla. Come ne L’amore bugiardo – Gone Girl di David Fincher, uscito quello stesso anno, lo svolgimento delle indagini passa in secondo piano per evidenziare altro: per Fincher era il circo emozionale scatenato dai media, per Anderson la sensazione di spaesamento e confusione che ammantava il 1970.

C’era una generazione di sognatori che vide improvvisamente morire tutto. C’era sapere dalla televisione dell’omicidio di John e Bob Kennedy, di Malcolm X e di Martin Luther King. C’era il rimanere impalati davanti a quello schermo e non capire se le notizie fossero vere o solo il brutto scherzo di qualche droga. C’era un fascismo strisciante e subdolo che con la scusa di Charles Manson e dei suoi capelli lunghi faceva ciò che voleva a qualunque figlio dei fiori incontrasse. E se a menare era il distintivo tanto meglio.

C’era insomma tutta un’America di segnali di fumo, di voglia di cambiamento smorzata da una repressione nascosta in una nube di mistero, lasciando tutti basiti e incapaci di raccapezzarci qualcosa. Vizio di forma si inserisce pertanto nel processo che Anderson porta avanti da Il petroliere e che ora pare aver trovato un equilibrio inaudito grazie a Il filo nascosto: visitare la Storia americana come fosse un museo per darsi risposte sul presente del Paese.

Certo, risente un po’ del confronto con quel Il grande Lebowski dei fratelli Coen al quale tanto, forse troppo, somiglia e a furia di accumulare incontri stravaganti alla fine Anderson pare non saper come tirare le somme e buttar lì un finale tirato per i capelli, ma nei segmenti di cui è composto Vizio di forma è irraggiungibile.

Le chiacchierate a inquadratura fissa tra Phoenix e Owen Wilson, l’arrivo di Martin Short e del suo trenino di personaggi surreali, i litigi tra Phoenix lo sballato e Josh Brolin il fascistone (da antologia il loro incontro finale), il monologo di seduzione di Katherine Waterston nuda, la reazione di Phoenix alla foto della figlia di Jena Malone, le prostitute del Chick Planet Massage. Forse nell’insieme non si raggiunge organicità ma in mezzo ci sta un cinema che solo Anderson.

(Brando Sorbini)

Se «l'occhio non vede cose ma figure di cose che significano altre cose», le pupille dilatate di Larry "Doc" Sportello aprono uno spiraglio su di un'altra dimensione conoscitiva, ovattata e indistinta come la foschia marina da cui a un certo punto sono avvolti lui e Coy Harlingen, solo una delle tante persone che stanno lì, sempre sul punto di smaterializzarsi davanti allo sguardo stordito di Joaquin Phoenix.

È il 1970 e nonostante sia trascorso appena qualche anno dall'auge della contestazione, Doc è un detective privato considerato già fuori dal tempo e dalla storia, un hippie ridotto a macchietta dall'altra parte della società americana con la differenza che lui, questa sua condizione, l'accetta ben volentieri e non intende sovvertirla. Shasta gli si rivolge per chiedergli aiuto su un caso che la riguarda intimamente, un turning point immediato e che vedremo poi coinvolgere chiunque e ramificarsi ovunque.

Dietro questa carnevalesca mescolanza di mondi e fuga continua di eventi, chiamate e soffiate Paul Thomas Anderson trasmette la paranoia all'indomani della fine di quegli anni, gli anni del furore psichedelico e delle vibrazioni positive di cui Doc si rivelerà ancora fiero portatore. Ma anche gli anni della politica securitaria post Manson. Ancora immerso nei fiumi e nel fumo della rivoluzione, Doc è a modo suo uno che vuole resistere, in lui non c'è collisione con i meccanismi di un potere di lì a poco avrebbe annullato ogni forma di desiderio, quell'unico elemento, per Guy Debord, ancora sovversivo e passibile di sopravvivenza nella società dei consumi.

Il cinema di P.T. Anderson è una delle manifestazioni più compiute del postmodernismo letterario - di cui, non a caso, Pynchon è uno dei pilastri - nel cinema, quantomeno dalla seconda metà degli anni '70 ad oggi; personaggi affetti da dissociazioni schizoidi, flussi di coscienza esperiti con lo stesso vortice con cui fluiscono nel pensiero. Da un lato c'è il bisogno cinefilo, dall'altro, mantenendo un'impronta di stile che lo caratterizza da Boogie Nights, (piani sequenza lunghi e rocamboleschi, lentissimi carrelli e parentesi immaginifiche) c'è un linguaggio che si reinventa e ricrea ogni volta fino all'operazione magica de Il filo nascosto. Non meno importante il lavoro che Jonny Greenwood compie (e ha sempre compiuto) sul sonoro, eclettico e delirante quasi quanto il senso dell'opera creando un incredibile sincretismo tra le immagini già di per sé iconiche e la musica.

Il cineasta americano avviluppa il Vizio di forma di Thomas Pynchon in laocoontiche volute fin dalla prima apparizione di Shasta Fey Hepworth, per poi farla ritornare "in asse" nella vita di Doc soltanto alla fine tanto che, per qualsiasi spettatore vergine, sarebbe più che lecito domandarsi se quell'andirivieni così isterico non sia solo la conseguenza di un ennesimo (stavolta definitivo) trip mentale.

(Elvira Del Guercio)