Partire è un po’ morire, ma a volte anche tornare…non è esattamente un’ottima idea.

Nel suo viaggio a ritroso sulle orme di un se stesso ormai perduto e irraggiungibile, Felice Lasco (un sorprendente Pierfrancesco Favino poliglotta e dolente) ci cattura in un pedinamento avvincente e mai noioso che lo vede ricucire di porta in porta, incontro dopo incontro, uno strappo mai sanato con il proprio passato, un vero e proprio buco identitario col sapore di rimosso, che potrà essere sanato solo perdendosi nei gomitoli di viuzze e vicoli che ricamano le interiora del rione Sanità.

Cosa è questa Nostalgia che campeggia nel titolo del film? Nostalgia, per dirla con il saggista Antonio Prete che gli dedicò un bellissimo libro a fine anni ‘90, “è dolore per un ritorno che si mostra con l’iridescenza del miraggio e insieme con l’amarezza dell’impossibile". Il dolore provato per un miraggio, un desiderio impossibile e l’amarezza inconsolabile di un ritorno tanto atteso quanto tradito, rinviato, differito.

Nostalgia (tredicesimo film di Mario Martone, tratto dal romanzo omonimo di Ermanno Rea) è un film bellissimo e saldamente collocato nella filmografia del suo regista, oltre che intriso del suo impeccabile stile (sentimentale, fotografico e architettonico) tanto da esserci apparso a tratti come il dagherrotipo de l’Amore molesto, nella sua versione virile. Nostalgia è un film dall’anima variegata e multigenere, pullulante di una eterogeneità tipica napoletana (così come il suo protagonista è multietnico e poli/identitario, musulmano, napoletano, emigrante e scugnizzo), che inizia come un thriller, si sviluppa come un melodramma e termina con un colpo di scena ferale che da alcuni è stato inteso come quello di un film “civile”.

L’incipit ha senz’altro il piglio di un thriller: vediamo un forestiero, molto silenzioso, ma spedito, arrivare nella città di Napoli in aeroplano alla ricerca di qualcosa o qualcuno che non sarà rivelato da subito (per i primi minuti del film non parla con nessuno, appende una cartina topografica al muro dell’hotel segnando in rosso alcune zone della città). Cominciamo a scoprire qualcosa di lui quando incontra la vecchia madre (Aurora Quattrocchi), con la quale vive una delle scene più tenere e delicate del nostro recente cinema sul tema della vecchiaia, della cura e dell’amor filiale.

Così come ne L’amore molesto  il viaggio di Delia nella città natale (Napoli) prendeva piede dal misterioso delitto della madre, qui il viaggio a ritroso di Felice Lasco sembra muoversi dal nulla, ma nasconde invece il lento disvelarsi di un segreto e di un antico delitto che sono il motore della storia, ma anche alla radice del sentimento forte di nostalgia declamato dal titolo del film (e del libro da cui è tratto).

Allo stesso modo che nel viaggio a ritroso di Delia, anche qui, il procedere di Felice tra i vicoli di Napoli e i palazzi scalcinati della sua città natia è propedeutico al lento riaffiorare di un passato rimosso che pian piano sembra catapultarlo nelle catacombe della memoria seppellita cancellata, una memoria che, riaffiorando poco a poco porta con sè il sentimento della nostalgia, il desiderio del ricongiungimento.

Sì perché quella di Felice Lasco è nostalgia di sé (di quello che era e di quello che sarebbe potuto diventare se non fosse mai partito), ma la partenza qui ha avuto il ruolo di cesura netta e traumatica tra passato e presente, oltre che bussola per indirizzare il suo futuro. “Chi non si è perso non possiede”, l’aforisma pasoliniano posto come epigrafe del film, condensa in poche parole la radice melo/drammatica della nostalgia: chi non ha perso se stesso non può accedere al processo di ritrovamento del proprio io, annaspando nei cunicoli della propria anima quando anche non della propria memoria.

I flashback, ancora una volta in un film di Martone, la fanno da padrone. I ricordi virati al seppia si devono necessariamente fondere con la luce impietosa del presente (nella fotografia impeccabile e luminista di Paolo Carnera) per restituire la materia tridimensionale di cui siamo fatti: tridimensionale e temporale, siamo passato presente e futuro (incerto).

E poi c’è la napoletanità impegnata e controcorrente. Qui rappresentata dal parroco del rione Sanità (la faccia è la stessa del Sindaco del rione Sanità quella del bravo Francesco Di Leva /Don Luigi Rega), un parroco che protesta sulla pubblica piazza per i morti di camorra, e che entra nelle case della gente per riprendersi il futuro di giovani gettati in mano alla malavita dalle loro stesse famiglie.

L’incedere esaltato e a tratti mistico di un Felice galvanizzato dal ricongiungimento con il ventre della propria città perduta ci accompagna saltellando verso un finale prevedibile, e tuttavia inatteso, che porta il segno di tanto cinema martoniano e di quella sua inimitabile capacità drammatica di far coesistere il bello e il brutto, il buono e il cattivo, la raffinatezza della cultura con la volgarità dei bassifondi, il tutto all’insegna di una semplicità così netta che mozza il fiato (soprattutto se messa a paragone con i virtuosismi autoreferenziali di altri registi partenopei che, a forza di riempire di forma le proprie opere peccano poi, spesso, nel sentimento più autentico del cinema).

“I cuori si rivelano col tempo” dice il parroco a Felice Lasco per infondergli la pazienza utile a conoscere il suo destino. Mario Martone viene dal teatro, e così sono imprescindibili per le sue storie le scene madri e i colpi di scena. Usciamo dalla sala intrisi di un sentimento amaro di nostalgia: è stato un vero colpo di cinema, un adorabile scacco matto allo spettatore.