L’ape regina (1963) è il primo lungometraggio italiano di Marco Ferreri, di ritorno dalla parentesi spagnola degli anni ‘50, durante la quale incontra e lavora con Rafael Azcona (per la triade di El pisito 1958, Los chicos 1959, El cochecito 1960), che diventerà il suo più importante collaboratore. Ferreri scrisse con lui alcuni tra i film più memorabili tra cui L'ape regina appunto, ma anche La donna scimmia, L'ultima donna, Ciao maschio, fino a La grande abbuffata. In una intervista rilasciata a Repubblica nel 1997, Azcona ricordava dell’amico regista "c'era tra noi questa affinità… forse perché eravamo d'accordo nel guardare ai destini umani come a un disastro piuttosto comico”.

E proprio in un “disastro piuttosto comico” potremmo dire che si evolvono le nozze e la vita di Alfonso/Ugo Tognazzi con Regina/Marina Vlady in questo film, che rientra appieno nel canone della commedia all’italiana per la tematica scelta (la famiglia tradizionale, il matrimonio) affrontata da una prospettiva ammiccante ad un sentimento (diffuso tra la popolazione maschile del tempo...e non solo) di miseria coniugale, di un impegno famigliare subito dal maschio con rassegnazione.  L’ape regina è infatti un compendio feroce ed esilarante dei peggiori topoi sulla famiglia tradizionale italiana, con un accento asprigno posto sull’influsso della religiosità cattolica all’interno del talamo coniugale, e una strizzata d’occhio all’imminente (auspicata) emancipazione sessuale.

La vita di Alfonso, quarantenne di aspetto piacente e belle speranze, facoltoso commerciante d’automobili, cambia del tutto nel momento in cui decide di convolare a nozze con la sua bella e illibata fidanzata, Regina, giovane di buona famiglia e rigidamente osservante i principi della religione di Stato. Regina arriverà vergine alle nozze, con l’intento di adempiere agli obblighi coniugali unicamente per fini procreativi, "non lo fo per piacer mio ma per far piacere a Dio” è il celeberrimo motto ricamato sulla camicia da notte del suo corredo. Ed è ampiamente noto che lo stacanovismo talamico della giovane sposa condurrà il povero Alfonso dritto dritto verso la  tomba, per consunzione. 

La trama del film è ricamata punto per punto con la sapienza di una vecchia merlettaia, che mentre dispone i contorni del disegno primario dipanando gli elementi principali ed apparentemente ordinari della rappresentazione, non dimentica qui e là di spargere i semi della trama secondaria. Così il gusto moderno di questa sceneggiatura risiede nella capacità di parlarci di qualcosa mentre ci sta dicendo qualcos'altro, di reclamizzare le gioie della vita coniugale  mentre ci mostra un marito intento a rifugiarsi in ufficio pur di non far ritorno a casa dalla moglie troppo esigente, di esaltare l'istituzione familiare come unica speranza di salvezza, mentre ci mostra un catalogo di nevrosi scaturite in seno alla stessa: il fratello celibe impiccione, le zie bigotte e un po' megere, la figlia femmina cresciuta nel mito di una santità casalinga da guadagnarsi con un amore sacramentato dalle nozze.

Il genio di Ferreri sfrutta fino in fondo ogni arma retorica in suo possesso per dirci qualcosa che nell'Italia dei primi anni '60 (l'Italia del cosiddetto "familismo amorale", che relegava le donne in una condizione di arretratezza drammatica e asserviva i giovani all'indiscutibile autorità paterna) non si poteva ancora dire apertamente. E mentre altri colleghi (vedi Lattuada) sferravano il loro personale attacco alla censura, tentando di allargare i confini del visibile con film "spudorati" come I dolci inganni, che mettevano al centro del racconto una ragazzina e la sua smania di liberarsi della verginità vissuta come peso, solo tre anni dopo Ferreri, grazie al coraggio dei suoi produttori, sfida in modo nuovo i confini del dicibile, affermando per negare, usando l'understatement come cartina al tornasole dell'italianità: ci presenta una iperbolica storia matrimoniale per mostrarci come siamo tutti schiavi di un'usanza a suo avviso retrograda e priva di piacere. 

È così che nello scorrere della pellicola costellata di humour nero e di una non troppo velata critica misogina, a farla da padrone sono le numerosissime litoti, che come garbati eufemismi si succedono per tutta l'azione drammatica, generando una irresistibile energia comica, che sfocia in plateali risate da parte del pubblico. Come quando Alfonso/Tognazzi vien fuori dal loculo tombale di famiglia, stremato dall'esperienza della traslazione dei resti della madre o piuttosto agitato da evidenti premonizioni di morte, e poggiandosi al muro di cinta cade per terra esclamando "non mi sento mica troppo bene". Sarà solo l'inizio della sua fine. La condizione di Alfonso, uomo (fuco) consumato dalla sua (ape) regina alla ricerca insaziabile di maternità, non è mai dichiarata se non per negazione. All'amico Riccardo/Riccardo Fellini dice sempre che sta benissimo, che la vita coniugale è uno spasso, che la moglie è il non plus ultra della sensualità (una delle parole censurate nella versione italiana del film), una vera forza della natura...ma l'amico di antiche scorribande vitellonesche (scelto certo per questa implicita citazione il volto di Riccardo Fellini per il ruolo dell'amico di gioventù) ha perfettamente chiara da subito la reale situazione e la battezza epigraficamente con questa battuta: "...Ti ricordi le feste con tutte quelle pataccone?...Sei fregato Alfo'...ma no, perché poi, hai trovato una donna vergine, funziona bene a letto, sei vicino al Vaticano, ma che voi de più?".  

Il valore intensivo della battuta è dato proprio dalla sua apparente ingenuità. Ma lo spettatore sa bene che la donna vergine equivale alla bigotta dai ferrei principi morali, che li mette in pausa solo per finalità genitoriali, la funzione sessuale è esercitata con passione solo a questo scopo, e poi sarà del tutto elisa, la vicinanza al Vaticano suona più come minaccia di intrusione della potente agenzia di controllo della Madre Chiesa in casa di Alfonso, che come auspicio di serenità. Anche Riccardo dunque afferma per negare. Del resto, nella versione non restaurata del film, quella che riuscì ad ottenere il visto di una censura inviperita con un prodotto che fu proibito "perché decisamente contrario al buon costume" furono tagliati circa cinque minuti di pellicola (per un totale di dieci tagli) e sette modifiche furono fatte nei dialoghi per contenere le allusioni più maliziose. E sempre in questa seconda edizione lo stesso Ferreri fu costretto ad inserire una "esilarante" epigrafe iniziale nella quale, ancora una volta, chiaramente, affermava lui stesso per negare: "Con questa amara favola ho voluto rappresentare in chiave paradossale e satirica quanto squallida è una vita matrimoniale deviata da una volgare ed egoistica concezione del piacere e da un formalismo bigotto frutto di un'interpretazione del tutto superficiale ed esteriore dei solidi ed immutabili principi della morale e della religione". 

La Cineteca di Bologna oggi ha così restituito al pubblico italiano la copia restaurata di uno dei film più rappresentativi del regista Ferreri, grazie al lavoro fatto sul sonoro e sul recupero dei dialoghi originali (dunque non edulcorati) da una copia francese del film. La funzione censoria oltre confine si limitava, fortunatamente, ai sottotitoli. La sala gremita, il pubblico appassionato, gli applausi di fine proiezione e le grasse risate, sono la prova che il restauro di alcuni capolavori martoriati da una censura miope e bigotta, è sempre fortemente necessario.