Francamente non sappiamo quali siano i criteri con cui gli organi ecclesiastici costituiscono le commissioni d’inchiesta canoniche, ma qui qualcosa non torna dal principio. Perché un pur acclamato reporter di guerra deve essere reclutato dalla Santa Sede per coordinare il gruppo di esperti (con lui ci sono un focoso teologo, una psicologa perplessa e due preti mediatori) chiamati ad accertare la veridicità delle apparizioni mariane viste da una giovane novizia? Certo, i motivi della proposta sono dichiarati: lo sguardo laico, il distacco critico, la capacità di calarsi in un territorio lontano dalle certezze della casa, l’inseguimento della verità sono qualità insite ad un cronista abituato a stare al fronte. In più, proprio quest’ultimo sta cercando di elaborare un lutto, non riesce a lavorare come un tempo, rifiuta i contatti con gli altri, ha seri guai all’udito.

Lo stesso casting di Vincent Lindon indica una precisa scelta di campo: l’approccio straniato e straniante del personaggio (perché proprio io? cosa c’entro io con questa storia?) è ben assistito dal volto segnato e sgualcito di questo attore inquieto e navigato, via via sempre più coinvolto in una vicenda appassionante proprio per la sua impenetrabilità. E, infatti, L’apparizione è soprattutto un giallo su un mistero inafferrabile.

Eppure, proprio il mistero sembra limitarsi quasi soltanto ai colpi di scena che accompagnano la seconda parte della lunga narrazione, lasciando che l’approdo all’incredibile soluzione del caso (un po’ troppo programmatico…) sia subalterno al percorso interiore del reporter predestinato dall’inizio a restare accecato dall’enigma. Non che di per sé sia un problema, ma l’intrigo derivato dalla dimensione mistica dell’apologo pare smarrirsi in un facile sistema di riferimenti, dal volto ieratico di Galatéa Bellugi, già reso iconico santino pronto alla mercificazione e con una biografia che sottolinea apparentemente la predestinazione alla visione della Madonna, al tessuto musicale che spazia senza un sussulto da Arvo Pärt a Jóhann Jóhansson passando per Georges Delerue.

Xavier Giannoli, ancora interessato a sondare la verità dietro e dentro la messinscena e qui piuttosto teso a mettere in dubbio la natura di uno scetticismo che forse gli appartiene, non riesce però a dirci più di quanto già sappiamo su aspetti decisivi come lo sfruttamento mediatico e commerciale del culto, al di là della restituzione di un universo sospeso tra misticismo e mistificazione (si pensa a Lourdes e Medjugorje, ma non sono diverse le dinamiche di molti santuari). Dove riesce meglio è nel ritratto del Vaticano, con i prelati abbastanza preoccupati di dare retta a fenomeni ai quali loro stessi sembrano non (volere o sapere) credere e comunque ansiosi di archiviare la faccenda per non affrontare l’imbarazzo di non saper dare una vera risposta al mistero di Dio.