Comincia con un canto e finisce con un grido il primo film di Kon Ichikawa visto in Occidente, per la precisione a Venezia nel 1956. È l’estate del 1945 e il canto viene da un’unità di soldati giapponesi in marcia attraverso la giungla al confine tra Birmania e Thailandia, dove li raggiunge la notizia della capitolazione del loro paese alle forze alleate. Ad accompagnare quest’indivisibile coro militare con la sua arpa birmana è il soldato semplice Mizushima che, dopo l’internamento della pattuglia in un campo angloindiano, scompare nel corso di una missione volta a indurre alla resa una postazione nipponica asserragliata su un monte.
Alla vigilia della partenza del battaglione per il Giappone, però, nei dintorni dell’insediamento compare un monaco buddista identico a Mizushima, scatenando le speranze e le ansie dei compagni d’armi che si erano solennemente promessi di non lasciare nessuno in terra straniera. Il grido è quello del pappagallo addestrato dal monaco a comunicare ai suoi commilitoni che Mizushima non tornerà a casa.
Dopo il primo incontro tra la truppa e il monaco la linearità narrativa si spezza a favore di un montaggio alternato del tempo armistiziale: nella quotidianità dei soldati prigionieri a Mudon, pronti a dimenticare gli abomini della guerra per ritrovare al più presto la patria, si intromettono i flashback del viaggio di Mizushima tra rovine di corpi massacrati e scheletri abbandonati all’aria aperta.
All’architettura spontanea e vagamente funerea del campo si contrappone lo splendore dei templi o delle statue monumentali di Buddha e, ancora più, la tacita magnificenza della natura, che le panoramiche di Ichikawa trasfigurano su pellicola come solo Satyajit Ray e Anthony Mann hanno saputo fare. La struttura del film torna integra al momento in cui il canto soldatesco si riunisce alla musica dell’arpa birmana, quando cioè il capitano Inoue e i suoi identificano nel monaco il compagno creduto morto. Ma quella di Mizushima è una risurrezione negata.
In quanto testimone isolato degli effetti disumani del conflitto Mizushima si sente chiamato al lavoro definitivo della pietà: seppellire i morti, i morti sconosciuti e dimenticati che affollano le valli e le coste della Birmania, i morti che non appartengono più a nessuno. Così impara a riconoscere l’umano in ogni cosa, nel volto di un bambino cui insegnare a suonare il suo strumento, nelle ossa incrostate di fango al bordo di un fiume, nel pappagallo che gli sta sempre appollaiato sulla spalla, in un rubino trovato per caso nello scavare una tomba.
Davanti a questo compito sacrale, coi suoi gesti antichissimi, la sua identità di sopravvissuto e la sua appartenenza a una comunità, a una nazione non contano più. Restano però i ricordi ineliminabili della devastazione e la preghiera di armonia universale affidati alla lettera per il capitano, condensato ultimo della poesia quasi soprannaturale dell’Arpa birmana, in equilibrio tra La grande illusione e un canzoniere orientale.
Tra il canto fraterno e il grido animale si gioca la scelta di Mizushima: è la rinuncia alla parola, alla famiglia e alla terra d’origine da parte di un uomo che volta le spalle ai suoi compagni e scompare nella nebbia per mettersi alla ricerca di un orizzonte esistenziale più vasto, più puro, e di una lingua che assomigli al suono dell’arpa o, come negli splendidi campi lunghissimi conclusivi sul mare e sulle rocce rosse della Birmania, al rumore pacificante del vento.