Un lungo cartello appeso in ufficio, su cui si dipanava in un barocco corsivo l’aureo mantra: “How would Lubitsch do it?”. Quando era perplesso, Billy Wilder volteggiava sulla sedia e fissava la scritta dietro le spalle: come lo farebbe Lubitsch?, si chiedeva, come sarebbe lecito sperare facesse ogni autore di commedia, di fronte ad un problema oppure no, anche se si occupa d’altro, perché la commedia si nasconde ovunque, anche quando i generi tenderebbero a negarla. E soprattutto perché nessuno meglio di Lubitsch riuscì a dare un senso all’umorismo, con l’eleganza, l’intelligenza, il controllo di chi non ingannava lo spettatore, come ben sapeva l’allievo viennese che, al pari del maestro, lasciò l’Europa un attimo prima dell’apocalisse. Quando parliamo di questi autori, dobbiamo sempre aver presente il trauma della diaspora: cresciuti nel declino dell’impero, arrivati in America con la nostalgia del mondo perduto e finito sotto il giogo hitleriano, mai più tornarono in patria. Quale miglior antidoto della commedia per esorcizzare il dolore?
È, quindi, legittimo auspicare che, oggi, si rinnovi la regola: come lo farebbe Wilder? Chi ha ereditato il concentrato di cinismo e tenerezza, cattiveria e disincanto, acidità e leggerezza del malinconico moralista lontano da una casa che non è più quella della giovinezza? Tuttavia, che interesse possiamo avere – e anzitutto quale autorità – nel dispensare patenti di wilderismo? Lungi da noi: il punto è capire il lascito di questo incomparabile autore. Capire con quale coraggio, se non l’alibi dell’età, quelli stessi studios che gli permisero di esplorare i territori più insoliti o malati gli impedirono di mettersi dietro la macchina da presa dopo il 1981. L’insuccesso commerciale, si dirà: dal 1970 infilò una sequela di flop, eccettuato Prima pagina (1974), allo stesso modo di un altro spudorato esule, Otto Preminger, peraltro esecutore dell’ultimo Lubitsch.
Ma non bastava un oliatissimo buddy movie come Buddy Buddy (a parte il contiguo 48 ore di Walter Hill, che però apre un altro filone) per accorgersi del suo primato nel tema dell’amicizia maschile, una delle colonne portanti del cinema americano degli anni Ottanta (da Una poltrona per due a Prima di mezzanotte)? Pensieri sterili, perché Wilder, pur scomparso nel 1997, è un fantasma cinematografico da almeno trentasei anni: eppure il suo cinema non intende cedere al decadimento del tempo. Parafrasando la sua glaciale ironia, giacché “a Hollywood non seppelliamo i nostri morti, continuano a puzzare”, diremo che sentiamo tuttora l’odore di Wilder: d’altronde il suo ultimo cinema ha sempre ripensato la morte di un’epoca, mettendola in scena laddove fosse possibile sostare al cospetto di un cadavere accerchiato da fiori, dietro gli occhiali scuri che coprono occhi velati di lacrime o fin troppo sardonici. Allora potremmo ribaltare il discorso: Wilder non fece altri film perché aveva già diretto tutti i suoi film.
Un lungo addio dove continuamente si medita di fronte al crepuscolo, cercando i modi per alienarsi dall’amarezza di essere ormai estraneo ad un mondo che ha contribuito a rendere grande ma non sa più accogliere il suo sguardo più grande della realtà né la potenza della sua “avventura della parola” direttamente ereditata dal maestro Lubitsch. Nel momento in cui il cinema americano sceglie l’autoriflessivo ripiegamento nostalgico, Wilder espatria: l’Inghilterra vittoriana di Vita privata di Sherlock Holmes (1970) e l’Italia turistica in Che cosa è successo tra mio padre e tua madre? (1972) sono i luoghi dove cercare l’integrità perduta, attraverso due storie rivolte al passato che diventano occasioni per riflettere sulle verità nascoste da setacciare per scoprirne altre nuove. E se il penultimo opus, Fedora (1978) è un apice del vampirismo, una pietra tombale sulla leggendarietà del cinema che fa risorgere quasi un trentennio dopo il William Holden di Viale del tramonto, Prima pagina è il turning point di questa cerimonia degli addii.
Il film è apparentemente fondato sul concetto di replica: terza versione per il grande schermo di un collaudato testo teatrale, ennesima coppia maschile e secondo incontro wilderiano tra Jack Lemmon e Walter Matthau, rievocazione della Chicago del ’29, altra variante sul giornalismo dopo L’asso nella manica. Ma soprattutto un altro racconto sulla paura della morte da risolvere in un gioco tra realtà e finzione ove Wilder rende definitivamente il tributo al maestro: come accade in Vogliamo vivere!, si celebra l’arte del mentire ai danni del potere; come in Fra le tue braccia, l’amore è un incidente a cui non ci si può sottrarre; come ne Il cielo può attendere, gli uomini sono bambini che giocano sotto lo sguardo complice delle donne. Il cinema di Wilder è un sogno dal quale non ci si vuole risvegliare ma che deve uscire dallo spazio claustrofobico (Prima pagina) per scoprire cosa si celi dietro l’inganno che non si vuole disvelare (Fedora). Con la coscienza che al risveglio c’è l’incubo del ritorno (Che cosa è successo…), della fallibilità (Sherlock Holmes), della morte (tutti, in un modo o nell’altro).