Dichiariamolo subito: l'impressione di déjà vu è fortissima. Ma è  proprio qui secondo noi, che si gioca la partita. Lavorare con un materiale narrativo scarno e molto noto e provare a renderlo comunque personale, cercando un intrattenimento di qualità, tecnicamente ben rifinito con una scrittura e una recitazione curate, senza sentirsi obbligati a sfoggiare un qualsivoglia bisogno di autorialità e senza nemmeno scadere nello scimmiottamento di cinematografie a noi lontane. Al netto di qualcosa che non gira come dovrebbe, il risultato è apprezzabile e di piacevole fattura.

Leonida Riva è un veterano di guerra che dopo anni di missioni lontano da casa, ora vive in solitudine, imbottendosi di farmaci per tenere a bada un devastante stress post-traumatico.  Quando sua figlia Teresa viene rapita, Leonida per salvarla sarà costretto a tornare in azione e a risvegliare la parte più oscura della sua professione.

Una operazione chiara, si direbbe finanche scopertamente derivativa, ma forse è proprio nell'onestà di dichiararlo il suo fascino. D'altra parte se sei un giovane regista italiano e vuoi confrontarti con  un film di azione che parla di veterani di guerra che salvano bambine dalle grinfie di criminali senza scrupoli (un canovaccio che nelle sue infinite variazioni è alla base di una quantità impressionanti di film sopratutto americani) devi stare alle regole di chi questo sottogenere lo ha inventato, devi muoverti con circospezione riuscendo ad essere originale dove questo genere ti consente di esserlo e lasciare che i rimandi a film già noti (Io vi troverò su tutti ma anche The Equalizer e non ultimo il ben più autoriale A Beautiful Day di Lynne Ramsay con Joaquin Phoenix) rassicuri quella parte di pubblico che ama sentirsi coccolato all'interno di mondi narrativi noti e riconoscibili. 

Non un semplice action “all'italiana” dunque, dove in quel virgolettato c'è tutta quella prassi produttiva che pensa basti “territorializzare” un film nato e pensato altrove, per farlo funzionare in un altro paese, ma bensì un tentativo di mettere in pratica la lezione americana di certo cinema di genere, mostrandola assimilata e così ben compresa da poter essere utilizzata a proprio piacimento in un corpo produttivo e tecnico, totalmente italiano.

E proprio per evitare che l'italianità del progetto venga trovata semplicisticamente nella collocazione geografica, davvero ottima l'idea di svolgere il film in luoghi poco noti  (pregevolissima la ricerca scenografica di Fabrizio D'Arpino), quasi non luoghi, cantieri, zone urbane studiate per poter essere al di sopra e al di là di qualsiasi riconoscibilità. Notte, zone desolate e luci elettriche come unica fonte di colore e calore a dipingere la scenografia urbana del film, come si confà ad un moderno noir metropolitano. Luoghi lontani da tutto, estranei, che metaforizzano anche lo stato di totale emarginazione del protagonista, straniero ovunque, ormai anche agli affetti familiari, tranne la figlia piccola (quella incautamente rapita)  unico affetto davvero legato a lui. 

Ma è nel lento recupero del rapporto con il figlio primogenito che probabilmente avviene lo scarto di maggiore rilevanza con altri prodotti simili. Un figlio che del padre conosce soprattutto la sua durezza e il suo allontanamento progressivo dalla vita familiare, senza sapere nulla né delle sue ragioni, né del suo grave malessere. Un racconto nel racconto che avviene a distanza, con poche parole e molti sguardi, fino ad un bellissimo e affatto scontato abbraccio finale, muto, mostrato da lontano, che dribbla il sentimentalismo ma non le emozioni. Il resto è azione, pura, viscerale, dura, efficacemente coreografata, girata e montata senza scappatoie, in modo piuttosto credibile, senza una effettistica ricerca di spettacolarità, cercando insomma di non dimenticare mai le reali possibilità in combattimento di uomo piegato da farmaci e traumi di varia natura.

Elemento centrale per il funzionamento di un film come questo è naturalmente l'attore chiamato ad interpretare il protagonista e là dove ci fu stupore e qualche perplessità con il Taken americano che vide come protagonista un attore composto ed elegante come Liam Neeson, così la curiosità era tanta nel vedere un grande e raffinato attore di cinema e teatro come Fabrizio Gifuni nei panni di un veterano di guerra, violento e oscuro. Curiosità ripagata con una prestazione maiuscola, di grande personalità e carattere. Gifuni si mangia lo schermo e seduce lo spettatore, muovendosi come un corpo allo sbando, impacciato ma letale, zoppicante, ferito, ma inarrestabile, con uno sguardo intenso e una voce profonda e rugginosa che sembra uscire a fatica da dietro una folta barba. Non ha purtroppo la stessa fortuna la scelta di Andrea Pennacchi come villain, un personaggio il suo che non ha il tempo di rendersi credibile sfociando quasi nella macchietta: peccato perché Pennacchi è attore di primissimo livello e dispiace vederlo così mal valorizzato.

Produce l'attivissima factory di Matteo Rovere e Sydney Sibilla, Groenlandia, che sta infondendo nuova linfa nel cinema di genere italiano, dando spazio a nuovi registi e lanciandosi in progetti assai interessanti (l'ultima serie tv di Matteo Rovere, Romulus ne è un esempio). Dirige Ludovico Di Martino, regista giovane ma già con diversi lavori al suo attivo (tra i quali mi piace ricordare la scrittura e la direzione della magnifica terza stagione di Skam Italia) che qui dimostra ottimo controllo e preparazione nel cimentarsi con una vicenda assai poco frequentata dal nostro cinema ma qui diretta con personalità e mano felice.  Cinema di genere sincero e fatto bene: non è poco.