È il 1979. Jimmy Carter sa che la fine della sua presidenza (del suo mondo, del suo immaginario) è vicina. Appare in televisione, ancora focolare domestico attorno al quale la famiglia si riunisce per prendere atto dello stato della nazione, e parla della crisi di fiducia del popolo americano. Il suo discorso è passato alla storia come il “malaise speech” e per alcuni rappresenta uno dei viatici all’ascesa – comunque nell’aria – di Ronald Reagan. Dorothea sente di essere dentro un frangente decisivo e percepisce l’intimo spaesamento di Carter, con l’orgogliosa malinconia di chi è sopravvissuta alla Grande Crisi del ’29. Ma soprattutto pensa a Jamie, suo figlio quindicenne, cresciuto senza padre e circondato dalle presenze femminili che popolano la grande casa-pensione vittoriana a Santa Barbara.

Il senso de Le donne della mia vita lo possiamo intuire recuperando il titolo originale del terzo film di Mike Mills. 20th Century Women mette il secolo accanto alle donne, il tempo che scorre inesorabile e dolce addosso alle persone. Se nel suo film precedente, l’indimenticato Beginners, c’era un padre che metteva alla prova il figlio, qui il rapporto è ribaltato e mette al centro una madre, che quotidianamente, ammettendo le proprie difficoltà nell’accompagnare in solitudine il ragazzo verso la vita adulta, si chiede come si faccia “a diventare un brav’uomo”. Annette Bening fuma le Salem leggere, calza le Birkenstock, indossa i pantaloni come li porterebbe Katharine Hepburn e, così apodittica, preoccupata, ruvida, umanissima ("Credo soltanto che avere il cuore spezzato sia un modo terribile per sapere come va il mondo"; "Chiedersi se si è felici è il primo passo verso la depressione"), è indimenticabile.

È a lei che spetta la comprensione del coming of age altrui, una questione che trova ancora una volta una personale declinazione dentro l’autobiografia di Mills: in Beginners gli eventi inaspettati imponevano al giovane uomo di crescere ancora; qui il classico schema del romanzo di formazione maschile si allarga ad una prospettiva dominata da mondo femminile. Dorothea, infatti, delega parte dell’educazione sentimentale dell’uomo in fieri ad altre due generazioni di donne ospitate nella pensione. Sono una fotografa femminista trentenne (Greta Gerwig, la vestale del cinema indie) e la pressoché coetanea di Jamie molto punk (Elle Fanning, la nuova musa). Tutto ciò avviene dentro uno spazio perfettamente determinato da oggetti, musiche, libri, forme d’arte in grado di comunicare autenticità e pezzi di vita: le automobili già retrò, La collina dei ciliegi, i capelli rosa di David Bowie ne L’uomo caduto sulla terraLa strada meno percorsa di Scott Peck, Wilhelm Reich e Le politiche dell’orgasmo, i Black Flag, Forever di Judy Blume, l’avanguardia di Koyaanisquatsi.

In questa tessitura di frammenti di un discorso americano, è nella casa di Dorothea che ogni cosa trova patria e protezione. Ed è un nido, un guscio, un rifugio lontano dal quale i personaggi svelano la propria vulnerabilità e si sentono persi, devastati dall’attesa dell’imponderabile. Anche per questa fondamentale incidenza del domestico è davvero il controcampo di Beginners. Con le sue voci narranti sempre puntuali nel chiosare se stesse ed ampliare la visione temporale di una storia ancorata a modelli romanzeschi e memorialistici, Le donne della mia vita si esprime nella sensibile e pudica regia del graphic designer Mills, con lenti zoom all’indietro che veicolano un’empatia per distacco e le fotografie che aiutano a fornire autoritratti altrui.