Tutto è partito dagli scritti di una vecchia conoscenza di Roberta Torre, Porpora Marcasciano, già presidentessa del Movimento Identità Trans, ora a capo delle Pari Opportunità nel consiglio comunale bolognese, e figura fondamentale del mondo transessuale in Italia. Le sue mille e una storia avevano affascinato Torre, che non riusciva però a trovare una chiave di rilettura per farle diventare parte del suo universo cinematografico. Sino alla scoperta della vicenda emblematica – e a quanto pare comune – di Giovanna, costretta dalla famiglia dopo la morte a ridiventare Giovanni, sepolta in abiti maschili che nulla avevano a che fare con la sua identità e le sue scelte in vita.
Così è nato Le favolose, racconto di un gruppo di amiche trans più o meno di mezz'età che si ritrovano nella casa dove un tempo avevano vissuto insieme, dopo il rinvenimento di una vecchia lettera nella quale una loro amica morta al tempo aveva indicato il meraviglioso vestito verde col quale avrebbe voluto essere sepolta. Un desiderio tanto disatteso dalla sua famiglia quanto meritevole di una fiabesca riscrittura del passato. Nicole De Leo, Sandeh Veet, Sofia Mehiel, Mizia Ciulini e Porpora Marcasciano stessa – tutte “reclutate” da quest'ultima e tutte sullo schermo col nome adottato nella loro vita reale – interagiscono fra loro con l'affetto, la confidenza e la brutalità che solo gli amici fraterni possono permettersi.
Diversissime fra loro nella personalità e nelle sembianze, in un campionario di tipi femminili che va da Patti Smith a Brigitte Bardot, hanno tutte in qualche modo deciso di diventare “favolose”, data l'impossibilità di essere “normali” nel senso di conformi. Sono ferme nella volontà di costruire la propria vita liberamente, oppongono un'ironia a volte bonaria a volte feroce alle avversità, e “fra il destino e il dramma hanno scelto lo spettacolo”.
Un punto, quest'ultimo, che le mette direttamente in connessione con gli interessi della filmografia di Torre, che ha presentato Le favolose a Venezia, alle Giornate degli Autori, a 25 anni esatti da quando vi era esplosa col suo esordio Tano da morire. In questo cast di non professioniste, come tipico del suo cinema, Torre trova modo di raccontare un'altra delle sue colorate, vitali e indomite realtà ai margini, bisognose di levarsi di dosso qualche stereotipo di troppo. C'è molta gioia nell'opporsi alla polvere della casa e alla grana opaca del tempo provandosi mirabolanti vestiti ritrovati nell'armadio, o prendendo il sole in giardino sbattendo i piedi in una minuscola piscinetta, una gioia degna di farle diventare scene musicali.
Ma ci sono poi anche scene in cui le sue protagoniste parlano davanti alla macchina da presa di esperienze verosimilmente loro accadute davvero, di violenze inaudite da parte di sconosciuti per il loro semplice esistere nel mondo. Torre mette insieme commedia e dramma con coesione e al tempo stesso con un senso di straniamento per lo spettatore, qualcosa che rimanda al subitaneo balletto di Gocce d'acqua su pietre roventi di François Ozon. Eppure quello che le riesce meglio è, oltre alla celebrazione dell'amicizia, proprio l'unione degli opposti, il mescolamento fra i toni, fra documentario e fiction, improvvisazione e canovaccio, vero e falso. Il tentativo di risoluzione finale della vicenda dell'amica morta è guarda caso il punto più debole: nel voler trovare a forza un lieto fine, incautamente ne enfatizza il tragico.