Profughi, clandestini, precari, rifugiati di guerra, disoccupati, senza tetto, nuovi poveri, gilet gialli: sono alcune delle categorie dell’esercito di disagiati di vario grado che dalla crisi del 2008 ha scoperchiato con la sua mera presenza, di anno in anno inesorabilmente più folta, l’indifferenza dell’Europa e del mondo verso il valore dell’equa distribuzione della ricchezza. Categorie di persone visibili, alle nostre latitudini, quando occorre alimentare guerre tra poveri che fanno da sempre la fortuna di chi la ricchezza non intende distribuirla, ma tenersela tutta, solitamente senza aver fatto nulla di particolarmente pregevole per averla raggiunta.

Il cinema europeo è ricco di voci valide e importanti che puntano il dito sul progressivo declino della società della giustizia e dell’uguaglianza, spesso senza l’eco che la causa meriterebbe. Ken Loach, Mike Leigh e i fratelli Dardenne sono fra i nomi più legittimamente celebrati di questo cinema, ed il giovane regista francese Louis-Julien Petit mostra senza falsi pudori nel suo Le invisibili di avere fatto propria la lezione stilistica e tematica di questi maestri. Ma anche di voler fare qualcosa che sappia discostarsi dal loro fondamentale selciato.

Meno arrabbiato e pessimista dei registi menzionati, sceglie toni da commedia per raccontare in Le invisibili le vite emarginate di un gruppo di donne senza fissa dimora nella Parigi odierna e delle quattro assistenti sociali del centro di accoglienza che ogni giorno dà loro cibo per sfamarsi, bagni per lavarsi e mura entro cui ripararsi. Le difficoltà del centro nel reinserire le sue ospiti nella catena produttiva sono sanzionate con la chiusura del ricovero, cui le intraprendenti operatrici ovviano sfidando la legge ed ampliando, invece di diminuirli, i loro servizi. Ne nasce un allegro laboratorio clandestino per la valorizzazione dei talenti di ognuna, grazie al quale il riscatto di persone utili a se stesse e agli altri -non solo le clochard, ma anche le donne che di loro si occupano per mestiere- trova un compimento individuale e tangibile.

Si diceva di Ken Loach, Mike Leigh e dei Dardenne. Cosa si ritrova di loro nel film di Petit? L’egida di Loach è evidente nella rappresentazione del lavoro come strumento di affermazione della dignità della persona, anche laddove questa si dedichi ad un’attività tipicamente maschile come la riparazione di elettrodomestici, specialità dell’onesta Chantal. Lo spirito di Leigh segna invece il perimetro del discorso con un elemento ad esso centrale: la dignità di qualunque persona -brutta, maschia, sovrappeso, non più giovane, di colore, sdentata, transgender- nel suo sforzo quotidiano di stare al mondo. I toni dei Dardenne affiorano infine nei pedinamenti irrequieti delle lavoratrici del centro, a loro volta invisibili all’interno di relazioni affettive faticose o inesistenti e di dinamiche che sviliscono la generosità d’animo con cui si dedicano al prossimo.

Le invisibili si allontana definitivamente dai modelli citati nella visione che applica alle tematiche della povertà e dell’emarginazione. Condizioni dalle quali, ci dice il regista, ci si può affrancare con l’inventiva e l’aiuto di qualche scampolo di umanità ancora presente nonostante tutto. Dato il successo del film in patria e le ricadute più che concrete che ne sono derivate -alloggi ed assistenza medica per cinquanta senza tetto predisposti dalla sindaca di Parigi dopo la visione del film e proposta di legge di Macron, entusiasta della pellicola, per imporre aiuti ai senza fissa dimora di Francia-, c’è da chiedersi se Petit non abbia visto più lontano dei suoi mentori nel riportare al centro del dibattito il tema così urgente della disuguaglianza di classe.