Steven Spielberg si riconferma un regista estremamente poliedrico, che dirige film classici e film postmoderni con risultati eccellenti e che sa intrecciare le due tipologie di cinema inserendo strutture classiche in film postmoderni o facendo parlare della contemporaneità i suoi film stilisticamente più classici. Dopo il moderno classicismo (più strutturale che stilistico) di The Post, ecco Ready Player One: opera complessa, divertita e divertente, che pur poggiato su un vogleriano viaggio dell’eroe, torna ad esplorare il post-moderno caro al regista di Cincinnati.

Un meccanismo di entrata e uscita da un mondo alternativo, l’immersività di un’esperienza che si vive al meglio migliorando gli strumenti tecnologici in proprio possesso, la possibilità di vivere storie straordinarie ambientate in mondi impossibili: queste sono alcune delle caratteristiche del futuro distopico di Ready Player One, in cui tutti si rifugiano in una realtà virtuale chiamata Oasis, creandosi identità fittizie e dando ai propri avatar la forma preferita.

Non è superfluo sottolineare che queste sono anche caratteristiche dell’esperienza videoludica, dato che Oasis è un ambiente virtuale immersivo che espande la realtà virtuale abitualmente usata nei videogiochi. Il film e Oasis raffigurano l’evolversi tecnologico delle arti visive: si pensi al 3D (che, oltre ad essere la modalità consigliata per apprezzare al meglio la complessità visiva di Oasis, è richiamato diegeticamente dall’uso di un visore per accedere all’universo virtuale) o alle sale Imax o iSens, che promettono un’esperienza cinematografica oltre i limiti della sensorialità visiva e sonora “lasciando che le scene del film arrivino a fior di pelle”, proprio come la cyber-tuta usata dai protagonisti per trasformare in reali le sensazioni virtuali.

Ready Player One s’inserisce nel filone cinematografico che da Avatar a Matrix gioca con la realtà virtuale, accennando al discorso filosofico sulla verità delle nostre percezioni e del mondo in cui viviamo (nell’inganno ordito ai danni di Sorrento) e sposando il linguaggio e la visione di un pubblico cresciuto tra videogiochi e simulazioni 3D. Ready Player One dialoga apertamente con il suo contesto e fa dell’immersività (secondo Laurent Juillet, un tratto saliente del post-moderno cinematografico) una delle sue caratteristiche principali.

A questa affianchiamo il citazionismo, che qui tracima oltre i confini dello schermo. Il film è un’opera profondamente citazionista, ma la quantità e la contestualizzazione dei rimandi è tale da (ri)costituire un universo paradossalmente compatto che più che le singole opere (cartoon, videogiochi) cita un’epoca e una cultura: quella pop-culture che gli studiosi del creatore di Oasis analizzano per carpire i segreti della sua caccia al tesoro. Se non possono mancare decine di rimandi a videogames e fumetti degli anni Ottanta nelle armi, nei veicoli e negli stessi avatar, sono i vestiti, il look, le atmosfere e la musica a rievocare nei minimi dettagli quella pop culture che fa emergere il Michael Jackson di Thriller e i Duran Duran, Prince e Billy Idol. La colonna sonora riverbera questo spirito citazionista offrendo pop hits di quegli anni come I Hate Myself for Loving You di Joan Jett & The Blackhearts, Stayin' Alive dei Bee Gees o Stand On It di Bruce Springsteen, ma esprime ancor più l’anima postmoderna del film includendo nello stesso universo sonoro Johann Sebastian Bach e Twisted Sister, Blondie e brani originali di Alan Silvestri, che richiama persino Antonìn Dvořák.

Il citazionismo riguarda naturalmente anche la settima arte: oltre a numerosi riferimenti a film di culto come Indiana Jones e i predatori dell’arca perduta, Quarto potere o Matrix, spicca la sequenza ambientata all’Overlook Hotel di Shining in cui uno dei protagonisti (ri)vive da spettatore le nostre paure dettate dalla nostra conoscenza del film. I nerd che si scervellano per trovare le soluzioni agli indovinelli possono essere interpretati come alter ego degli spettatori ma anche di Spielberg stesso, che da un lato ci mostra cosa si cela “dietro” Oasis per suscitare un parallelismo tra il videogioco e la macchina-cinema, dall’altro si diverte a costruire un universo come un mosaico eterogeneo e a popolarlo di oggetti di culto.

Risulta dunque difficile non leggere Ready Player One come una dichiarazione d’amore di Spielberg alla settima arte e al suo potere immaginifico.

Del resto, è proprio il film stesso a indicarci che la chiave dell’esperienza non è arrivare alla fine del gioco (o del film), ma perdersi in esso, nel labirinto del divertimento.