Altre dune quelle con cui comincia il nuovo film del formidabile Bruno Dumont, tutt’altra fantascienza, campestre e balneare, la sua. Più che meritato Orso d’argento alla Berlinale, L’Impero è un oggetto filmico non identificabile. Come in anni recenti hanno fatto The Grandmaster di Wong Kar-wai per le arti marziali o La ballata di Buster Scruggs dei Coen col western, si tratta di un film che, sfondando allegramente le distinzioni tra i generi e le regole dell’industria, insieme alle aspettative della critica e le abitudini del pubblico, scombina tanto l’esperienza cinematografica contemporanea quanto ogni legittimità della sua interpretazione.

Di fronte a un esemplare così sfrontato, così riuscito di contaminazione libera anche giudizi e tentativi di spiegazione risultano riduttivi oppure onestamente deviati dall’immaginario dumontiano, che si diverte a negare qualunque opzione dialettica e preferisce inventare soluzioni paradossali per problemi che non sono ancora stati posti.

In questo caso Dumont insiste con l’apocalisse – e, ripescando dalle mini-serie P’tit Quinquin e Coincoin et les Z’inhumains il commissario Van der Weyden e il fido Carpentier della Gendarmerie Nationale, anche il tema della non-umanità. Nel precedente France il rischio continuamente rimandato del collasso privato della protagonista (nonché facile metafora di un’intera nazione in crisi) si prestava a rappresentare il cinismo e l’autoindulgenza del capitale mediatico. In una formula para-debordiana: la siccità dello spettacolo.

Qui le dune assolate del campo lungo iniziale non si trovano su un pianeta distante anni luce, sono invece quelle litoranee della placida Côte d’Opale, nel nord-est della Francia, dove dovrebbe consumarsi l’epocale battaglia tra due regni intergalattici da sempre in competizione per la conquista della Terra e la colonizzazione dell’umanità. Non fosse che queste potenze extraterrestri, richiamate sul posto dalla nascita di un bambino predestinato (ma a cosa poi?), abitano le fattezze sgraziate degli abitanti di un pittoresco villaggio di pescatori o i corpi eccezionalmente sensuali di ragazze di passaggio.

Così l’epica delle guerre stellari e la paura della contaminazione aliena si confondono con le preoccupazioni domestiche di una comunità molto rustica in cui tutti si conoscono e davvero sembra che non accada mai niente di nuovo. Tanto che, per quanto limitato ai campi medi dei paesani che discutono della spesa, del clima o del lavoro, nettamente meno coinvolgenti dei primi piani sui protagonisti dominati dal furore manicheo o degli splendidi campi lunghi sul paesaggio mosso dal vento, l’argomento principale del film è proprio l’indifferenza di questa umanità rispetto a tutto quanto travalica il ritmo sonnacchioso della vita quotidiana.

Convivendo con l’affollamento del mercato di strada e la fatica della pesca, la stessa riproposizione della fine del mondo – topos definitivo della tradizione fantascientifica – scarta di continuo in direzioni imprevedibili e contraddittorie: per una volta, eroico e ridicolo combaciano senza pudore.

Il canone sci-fi, inteso come lingua veicolare del cinema occidentale, viene di continuo svalutato sintatticamente, esaltato morfologicamente e messo semanticamente in discussione attraverso la parodia proletaria di Star Wars: le voci artefatte fino all’incomprensibilità; le spade laser affidate a ragazzini insicuri; i pomposi discorsi sul bene e sul male corrosi dall’intensità delle scene erotiche in mezzo ai campi; le stupefacenti astronavi ridotte a simboli della vacua enfasi del potere, secolare o divino che sia (per i “buoni” la Sainte Chapelle, per i “cattivi” la Reggia di Caserta – come la Gare d’Orsay e il Palazzaccio usati da Welles per gli interni e gli esterni del tribunale nel Processo); la malcelata svogliatezza delle forze del Male e la corruzione melodrammatica di quelle del Bene; la battaglia decisiva centrifugata in un amplesso cosmico.

Oltre che nel suo talento fisiognomico per le facce degli attori non professionisti, le quali evocano un panorama umano di marginalità sgangherata, l’originalità naturalistica di Dumont sta nel combinare tutti questi elementi in una messa in scena dove lo sguardo e il pensiero sono esposti all’eventualità dello smarrimento, a tratti persino alla lusinga della distrazione.

Mentre verrebbe naturale concentrarsi sulla carne fremente di Jane e Line, proprio nei momenti di massima tensione strategica, o durante i deliri di Belzebù e le invocazioni della Regina, si viene attratti da un cavallo bianco che nitrisce al limite dell’inquadratura, da bagnanti anonimi in secondo piano, dalle musichette astruse suonate senza una ragione. E ci si chiede attoniti dove, intorno a noi, si stia svolgendo la storia che ci interessa e ci riguarda, quella che deciderà del nostro futuro.

Ripensandoci, torna in mente che gli imperi rivali nel film rispondono ai nomi di Zero (il Male) e Uno (il Bene): evidentemente la battaglia che crediamo si combatterà nel cielo (lo stesso che viene mostrato, giusto velato da qualche nuvola, nei primi secondi) è quella tra i bit, nell’alternanza codificata di 0 e 1, per stabilire chi e come dominerà la tecno-coscienza imminente. Comunque, se anche lo scontro finale per il destino dell’umanità fosse – come forse sta succedendo proprio ora – sopra la nostra testa, come i personaggi di Dumont noi non ce ne accorgeremmo.

Per questo L’Impero è il più scatenato poema eroicomico per immagini che ci meritiamo, l’irrinunciabile fantascienza alternativa in cui ancora sperare.