I cani di Wes Anderson sono forse la rappresentazione più critica del mondo dei pets, ovvero quegli animali accuditi come se fossero membri della famiglia, un ruolo ambiguo che vede nella convivenza con l’uomo la loro salvezza e allo stesso tempo una triste condanna. Il cane mostra qualità simili all’uomo, questo “privilegio” rischia di rendere ancora più difficile la sua reale comprensione fatta di contraddizioni così evidenti nell’immaginario letterario e cinematografico. Se da una parte il cane domestico più celebre è Pluto, fedele compagno di Topolino, Pippo non è altro che una versione macchiettistica dell’uomo, inutile rispondere al quesito sul perché Pippo sembri uno sballato.
Il legame di parentela tra l’uomo e l’animale è presente fin dagli albori della civiltà, si pensi all’animale totem, alla trasmigrazione delle anime in corpi animali ma anche ad alcune delle principali figure mitologiche nelle quali convive la dualità uomo-bestia. L’asina parlante di Balaam è forse uno dei primi animali a comunicare con l’uomo e darà vita a una lunga serie di esseri loquaci che non fanno che ribadire l’intricata e indissolubile relazione uomo-animale: “l’uomo è un animale, perché può degradarsi; l’animale è un uomo, perché può elevarsi o potrebbe rivelarsi umano, se fossero tolti alcuni impedimenti accidentali”. (Zooantropologia. Storia, etica e pedagogia dell’interazione uomo/animale, a cura di Claudio Tugnoli, Milano 2003)
Già Plutarco, nel trattato Del mangiare carne, aveva riconosciuto le virtù degli animali contrapponendole alla natura viziosa dell’uomo, attaccandone l’antropocentrismo, visione egoistica che priva gli altri esseri viventi della propria soggettività considerandoli incapaci di apprendere e di modificare il proprio comportamento in base all’esperienza. Secondo Democrito, invece, il debito dell’uomo nei confronti del mondo animale è immenso, dal ragno avrebbe imparato a tessere, dalla rondine l’architettura, dal cigno e dall’usignolo il canto, per non parlare delle abilità chirurgiche degli elefanti che estraggono le armi conficcate nel corpo dei compagni feriti.
Bene, cosa c’entra con L’isola dei cani? Nel film di Wes Anderson troviamo tutto questo, l’animale giocattolo, il pet, che la stop motion trasforma in un puppets restituendogli il soffio vitale e la dignità tanto agognata. Attraverso le favole, scrive Sergej M. Ejzenštejn, siamo entrati in contatto con il mondo degli animali nel quale l’uomo, loro “fratello maggiore”, vede rispecchiata la sua faccia deformata, “spiacevole rivelazione” alla quale “contribuisce con compiacenza la confraternita inferiore di caproni e pecore, di volpi e leoni, di aquile e serpenti, di rane e scimmie”. (Sergej M. Ejzenštejn. Walt Disney, a cura di Sergio Pomati, Milano 2004)
Mickey Mouse, archetipo moderno della relazione uomo-animale, per Ejzenštejn incarna il “sogno americano”, non più “un personale cammino verso il successo ma la spinta a cambiare, a trasformare ogni ingiustizia in un trionfo di creature contagiate, parossistiche, indomabili”. Il Paradiso ritrovato di Disney “non è l’assurdità del contrasto tra le concezioni infantili di un tipo stravagante e la realtà degli adulti, ma l’effetto comico generato dalla loro incompatibilità. (…) Disney – e non a caso lo disegna – rappresenta il ritorno completo al mondo della libertà totale – una libertà che non a caso è fittizia –, un mondo liberato dalla necessità, l’altra sua estremità primaria”.
La novità di Disney è la realizzazione di un mondo fittizio estraneo a ogni legge fisica, un paradiso ritrovato nel quale vengono messe in discussione le gerarchie su cui si fonda la società. Secondo Ejzenštejn, l’animazione, meglio di qualunque altra forma di racconto, può rivelarsi utile per restituirci una visione utopistica della realtà: “ʻChi ha paura del lupo cattivo?ʼ – ʻNoi no, noi no...ʼ (…) Questo grido di ottimismo poteva essere solo disegnato. Perché non c’è il più piccolo angolo della realtà capitalista che, se venisse filmato così com’è, potrebbe davvero risuonare come un incoraggiamento ottimista! Ma fortunatamente ci sono le linee e i colori. La musica e l’animazione. Il talento di Disney e ‘quel grande consolatore’ che è il cinematografo”.
Il grido di ottimismo lanciato dai Tre porcellini può essere visualizzato solo grazie all’animazione, la stop motion utilizzata sia in Fantastic Mr. Fox (2009) che ne L’isola dei cani, sembra confermare le teorie di Ejzenštejn; quella depressione trasognata che caratterizzava molti dei protagonisti del cinema di Wes Anderson è stata completamente cancellata dai movimenti sciolti e ingessati in egual misura dei puppet testardi e combattivi, in bilico tra il mondo animale e l’età dell’infanzia, l’unico periodo della vita in cui è ancora possibile entrare in sintonia con la natura, Moonrise Kingdom insegna, e Ejzenštejn ribadisce, riportando l’ultima riga scritta dalla mano di Gogol’: “Se non diventerete come bambini, non entrerete nel regno dei Cieli”. Parole sacrosante, sicuramente condivise da Anderson, il cantore di un’infanzia prolungata.
Come Disney anche Anderson sembra aver “ricreato la sua infanzia come terapia e impresa”, l’affermazione di John Landis, tratta dal libro di Mariuccia Ciotta Walt Disney. Prima stella a sinistra (2005), definisce perfettamente l’opera di Anderson che con Disney condivide anche l’irresistibile attrazione verso “i sistemi di trasporto collettivo, (…) il movimento delle persone via acqua, rotaia, cavallo, al di sopra della terra e sotto il mare, come si può constatare a Disneyland e a Disney World”. Quante volte abbiamo seguito gli spostamenti dei protagonisti andersoniani su treni, funivie, imbarcazioni e in gallerie sotterranee. Il viaggio diventa una necessità, partire significa “imparare a conoscere la paura”, su questo presupposto, riportato da Walter Benjamin in A proposito di Topolino (Zu Micky-Maus, 1931), si fondano le favole e i film di Mickey Mouse, ma anche di Anderson, aggiungeremo noi, il quale segue il consiglio di Benjamin raccontando favole cinematografiche che hanno “la freschezza e l’innocenza dei bambini”.
Ne L’isola dei cani Wes Anderson mette in luce il rapporto ambivalente dell’uomo nei confronti della natura, gli animali domestici svolgono il ruolo di mediatori, attraverso di essi l’uomo crede di aver recuperato quell’armonia perduta da giardino dell’Eden, rimessa in discussione da un’epidemia che colpisce i cani nella metropoli giapponese di Megasaki, presto confinati in un’isola-discarica. La diffusione della malattia, pilotata dalla dittatura Kobayashi, fa riemergere quelle paure ataviche e irrazionali nei confronti della ferinità delle bestie, completamente estranea al pet, ora considerato la fonte del disordine e delle paure che legittimano i comportamenti crudeli degli abitanti di Megasaki.
Anderson mostra la cessazione dello stato di grazia in cui ha vissuto fino a quel momento il migliore amico dell’uomo, un privilegio per pochi eletti come dimostra il laboratorio di ricerca sull’isola in cui veniva praticata la vivisezione, visione atroce dell’animale-macchina piegato alla volontà dell’uomo, contrariamente al pet umanizzato e coccolato, numerosi sono i riferimenti al film d’animazione I cani della peste (1982). L’uomo da sempre riflette sugli animali le proprie fobie e gli stereotipi che caratterizzano la natura umana creando un’immagine caricaturale e priva di qualsiasi fondamento scientifico, ignorare l’etologia significa non porsi domande di fronte a una ricerca scientifica crudele e chiudere un occhio sugli allevamenti intensivi.
La relazione che instauriamo con il mondo animale è l’estremizzazione del rapporto con l’altro, che trova nell’animale il diverso per antonomasia, il capro espiatorio sul quale proiettare le nostre angosce. Concentrando l’aggressività repressa sui soggetti più indifesi rientriamo perfettamente nelle logiche del pensiero razzista.
L’ironia e la leggerezza con la quale ne L’isola dei cani vengono affrontati questi temi, sempre attuali sia per gli uomini che per gli animali, porta Anderson a rimettere in discussione l’antropocentrismo, rivedendo la gerarchia degli esseri viventi e, di riflesso, dell’ideologia borghese, sulla scia di Micky-Maus, questo, spiega Benjamin nel saggio Esperienza e povertà (1933), mostra “un’esistenza possibile da crearsi nello stato di veglia”, una realtà fittizia nella quale il grande pubblico riconosce i problemi della vita quotidiana e cerca di distanziarsene scoppiando in una fragorosa e catartica risata che “può sembrare barbara, ma forse è meglio che una persona singola abbia qualcosa di barbaro in sé, affinché la comunità – finora così terribilmente barbara – possa trasformarsi in una comunità più umana”.
Concluderei il discorso cambiando totalmente discorso e riportando un paragrafo tratto da La principessa di Marte (1912) di Edgar Rice Burroughs, bisnonno di Wes Anderson e creatore di Tarzan e John Carter. Eludo la sorveglianza del mio cane da guardia, questo è il titolo del capitolo in cui troviamo John Carter e il suo cane marziano Woola, un rapporto di reciproca fiducia che non ha nulla da invidiare al legame tra Atari e Spots, e, chissà, è bello pensare che l’idea dell’inseparabile cane da guardia di Anderson sia nata sotto le lune di Marte.
“Ero convinto che quella bestia mi volesse bene”, racconta Carter, “mi aveva dato dimostrazioni di affetto più di ogni altra creatura marziana, uomo o animale, ed ero certo che in lui la gratitudine, poiché gli avevo salvato la vita due volte, controbilanciava ampiamente il senso del dovere impostogli da padroni indifferenti e crudeli (…) Non l’avevo mai accarezzato o coccolato. Mi sedetti dunque per terra e, circondato con le braccia il suo grosso collo, lo vezzeggiai e lo carezzai con la mano, parlando nel mio marziano imparato da poco, come avrei fatto col mio cane o con qualsiasi altro animale di casa. Reagì alle mie dimostrazioni d’affetto in modo assai particolare. Aprì le immense fauci scoprendo la fila di zanne superiori e increspando il muso in modo che i grossi occhi sparirono tra le pieghe della pelle. Se avete visto sorridere un grosso cane da pastore, potete farvi un’idea della distorsione facciale di Woola”.