Ogni storia d’amore è una storia di fantasmi, scriveva David Foster Wallace. Anche dietro la cinefilia si radica l’incontro con l’assenza, la fascinazione fantasmagorica, la sedimentazione iconografica nella memoria, la corrispondenza empatica tra il corporeo e l’immateriale.

L’orto americano, opus n. 55 nell’eterogenea e avventurosa filmografia (anche televisiva) di Pupi Avati, insegue lo spettro di un’ossessione passionale nei meandri prismatici e ardui di un ritorno al cinema del passato, alla classicità degli antichi, ai cari estinti, alle lugubri e seducenti ombre del “gotico padano” di cui il regista è padre, in una pregnante rarefazione di echi sonori e suggestioni estetiche di un sogno lungo un genere (il noir statunitense).

Romanzesco per cadenze e derivazione (tratto da un’omonima opera del regista), L’orto americano è la fiaba arcana e crudele di un’attrazione inesorabile e già recisa per un simulacro evanescente e riflesso, un’infermiera americana di divistica bellezza, che il protagonista (Filippo Scotti), scrittore dilettante, scruta nello specchio del barbiere a Bologna, alla fine della seconda guerra mondiale: un coup de foudre, più Vertigine di Preminger che Vertigo di Hitchcock, senza seguito se non con la morte stessa o con i suoi aloni incommensurabili, in una detection di enigmi, doppi e reticenze.

Il giovane, recatosi in Iowa per aspirazioni letterarie, si trasferirà accanto all’invalida madre (Rita Tushingham) dell’indimenticata ausiliaria, di cui in Italia si sono smarrite le tracce, forse a causa di un serial killer di donne nel ferrarese. Segreti femminili di famiglia e macabri relitti custoditi nell’orto che divide le due proprietà inducono il romanziere a indagare in patria, assistendo al processo contro il presunto omicida, sfidando il proprio equilibrio mentale già fragilissimo.

Nei contrasti plastici del bianco e nero di Cesare Bastelli, onirica chimera del noir degli anni Quaranta che schiude un immaginario, e nei volti attoriali marcati ed espressionisti, ormai quasi irreperibili, Avati estrapola il fantastico dal reale, filtrato dal suo retaggio provinciale e contadino, decentrato e obliquo, tra Midwest e terre emiliane, nei recessi della perdita, del lutto, della sacralità commemorativa, della vita come tormentato intermezzo non estraneo però alla rinascita.  Come sussurra delicatamente un prefinale evocando un altro fantasma, un’altra donna (o forse la stessa), con quella labilità tra veggenza e pazzia che sorregge altre sequenze di impianto surrealista, ora ispirate, ora meccaniche.

Sospeso tra due mondi (dopo la trasferta oltreoceano con Il nascondiglio) come altri recenti film stranieri, avulso tuttavia da un’acuta disamina del contesto postbellico, L’orto americano persegue il regime filmico di uno sguardo alienato e dissociato, a cui si nega il controcampo del dettaglio osservato, in una rivelazione sempre differita o delegata, nel fuori campo della morte che attrae e atterrisce, in una distanza siderale tra il reale e il vero, che si riduce solo in quella malsana purezza di visione che è la follia negli occhi dell’altro, come in Il papà di Giovanna.

Cupa ma non romantica ballata notturna sull’amore eterno (già rivisitato in Dante), dolente ma non torbido viaggio di anarchica solitudine, L’orto americano rivendica la sua stratificata compostezza anche nella classicità espressiva, con cui, tra auliche citazioni greche (Archiloco, Bacchilide) e un omerico nostos, Avati tempera l’orrore dei cult più osannati (La casa dalle finestre che ridono) nella sublimazione stilistica di chi vuole riconciliarsi con la quintessenza del cinema, come dichiarato dal regista.

Tra esumazioni, interiorità anatomiche, refettori cavernosi, si impone la settima arte come ventre materno e platonico, anfratto di tenebrose meraviglie, fertile orto di profonde radici che nella nostalgia del passato coltiva un balsamo per il presente. Ancora tutti defunti tranne i morti per un decano che contribuisce a risanare l’attuale panorama di genere, in un’interazione avvincente tra gli antichi maestri e il perturbante; non dirompente, non del tutto levigata, ma di rinnovata autorialità.