C’è un filo per nulla nascosto che lega Ultras, il primo lungometraggio di Francesco Lettieri, direttamente a Lovely Boy. E se Ultras era stato tacciato dalle stesse comunità di tifosi di non poter rappresentare efficacemente una società esclusiva e quasi impenetrabile, vale la pena soffermarsi su quel che Lovely Boy fa con la trap. Sì, perché il nuovo film di Lettieri, esattamente come Ultras, non ha la pretesa di raccontare una comunità, né costumi e rituali eventualmente riconoscibili all’interno della stessa. Non ci sono messaggi da veicolare attraverso un realismo brutale, ma solo storie da raccontare. Quei mondi, con quegli stessi personaggi, non diventano altro che un pretesto. Un pretesto ben calcolato, intendiamoci, perché non si tratta di mondi scelti a caso: sono estremamente adatti a svelare il prezzo da pagare quando non ci si ritrova più allineati al senso di appartenenza prescelto.

Distanti ma vicini, Ultras e Lovely Boy potrebbero definirsi due film sull’estraniamento. Come se i protagonisti del racconto diventassero alieni e vittime del loro stesso gioco, incastrati negli ingranaggi che essi stessi contribuiscono a mettere insieme. Quasi dei martiri disposti a esibire le tappe della propria passione allo spettatore, in un autentico rapporto fiduciario dove non c’è più l’ansia di un giudizio, di una sanzione. È come se i personaggi di Lettieri (e di Peppe Fiore, che torna a firmare la sceneggiatura) scalpitassero dentro i panni e i simboli che esibiscono, pienamente consapevoli delle proprie “colpe” e del prezzo da pagare per scucire l’uniforme che essi stessi hanno disegnato.

Non un film “sulla trap”, quindi, né un film sulle dipendenze, ma nemmeno un racconto di una generazione (o meglio, di una generazione e basta): in Lovely Boy ci sono persone a pezzi e pezzi da rimettere insieme. Un po’ come la narrazione, un continuo back-and-forth tra passato e presente, dove Nic (Andrea Carpenzano in stato di grazia) passa dalle luci e dalle seduzioni della scena trap romana al silenzio opprimente delle Dolomiti. Da una spirale vorticosa fatta di droghe, dirette Instagram e beat ossessivi, a una comunità di recupero fatta di improbabili solitudini che si incontrano (e scontrano, per poi incontrarsi di nuovo). Una realtà che, più che a disintossicare dalle dipendenze, sembra quasi sia lì a riscrivere il senso dei rapporti umani: trovare la giusta misura per avvicinarsi intimamente all’altro.

Con Lovely Boy (che diventa loNely nel gioco che marchia con ferocia le fasi di trasformazione), Lettieri continua a pedinare gli esseri umani nel tentativo di raccontarne le debolezze. Ed è questa la chiave per entrare nel mondo di Nic: far coincidere quanto più possibile la posizione dello spettatore a quella fisica e psichica del personaggio, spogliandosi di ogni facile morale. È un mondo di luci stroboscopiche che ricalcano ombre profonde, un invito alla difficile pratica dell’intravedere per connettere le tappe più dolorose. E in questo labirinto scomposto, da percorrere assimilando tutti gli elementi necessari alla ricostruzione, la musica diventa motore non invadente ma necessario.

Quasi a chiudere un discorso meta-cinematografico, Lettieri si autocita nella dimensione del videoclip per raggiungere la verosimiglianza del racconto: più che un divertissement, uno strumento per “crederci” e “far credere”. Perché la freschezza di Lovely Boy — che resta un gioiellino proprio per la sua semplicità misurata — risiede nello sfiorare il mondo della trap per tenere costantemente al centro gli individui. Giocare a “far finta che”, per immergersi meglio, a costo di ferirsi.