Parlare di John Huston significa un po’ andare a toccare gli Dei del cinema: perché, se è vero che il suo nome non è forse osannato al pari di quello di altri maestri come John Ford e Howard Hawks (giusto per citare due titani della Hollywood classica), è anche vero che Huston si merita a sua volta un ruolo di tutto rilievo nell’Olimpo del cinema americano. Senza dimenticare le sue numerose performance di classe come attore, è dietro la macchina da presa che Huston ha costruito buona parte del suo mito, dando vita con una regia imponente e apollinea a pietre miliari della storia del cinema. Huston è stato così grande non solo per la caratura di quasi tutte le sue opere, ma per una capacità – forse più unica che rara – di saper attraversare i decenni e fare da ideale trait-d'union fra la Hollywood classica e la New Hollywood.

Abile frequentatore di numerosi generi – dal noir al western, dal film d’avventura al war-movie fino al dramma psicologico – ha segnato gli anni d’oro di Hollywood con classici quali gli hard boiled Il mistero del falco e Giungla d’asfalto, e allo stesso modo ha poi saputo intercettare i cambiamenti in atto nella cultura e nel cinema americano fra gli anni Settanta e Ottanta, riuscendo a rimanere uno dei grandi autori del cinema hollywoodiano mentre emergevano i nuovi maestri come Francis Ford Coppola e Martin Scorsese. Uno dei manifesti del nuovo corso intrapreso dal Nostro è il western revisionista L’uomo dai 7 capestri (1972), un’epopea che rappresenta la quarta incursione del regista nel genere dopo Il tesoro della Sierra Madre, Gli inesorabili e il western di ambientazione contemporanea Gli spostati.

Ma The Life and Times of Judge Roy Bean (questo è il titolo originale del nostro film, che fa riferimento appunto alla vita e all’epoca del personaggio eponimo) – sceneggiato da John Milius – si caratterizza non solo per uno scarto fra i precedenti western classici e il revisionismo di questo, ma anche per il passaggio da uno stile serio e aulico (persino da tragedia greca ne Gli inesorabili) a uno stile dove l’azione e la violenza si mescolano in maniera indissolubile con una buona dose di ironia e dissacrazione del mito, dando vita a una narrazione avvincente e spettacolare che fa la gioia di ogni cinefilo.

Ne L’uomo dai 7 capestri, Roy Bean (Paul Newman) è un fuorilegge che giunge in un piccolo e sperduto villaggio nel Texas, a Ovest del fiume Pecos, una terra senza legge: in cerca di rifugio, viene però assalito e derubato dagli altri banditi che vi abitano, i quali lo legano con una corda al collo e lo fanno trascinare via da un cavallo. Salvatosi grazie alla messicana Maria Elena (Victoria Principal), che gli porta una pistola, si fa giustizia da solo uccidendo tutti i fuorilegge responsabili. Da quel momento si autoproclama giudice, amministrando sommariamente la giustizia in quella terra di nessuno, dove abitano solo alcuni messicani ed è terra di passaggio di numerosi fuorilegge, che vengono impiccati o stesi a colpi di pistola. Il suo tribunale è il saloon, che intitola alla cantante Lillie Langrty: una donna di cui è innamorato, alla quale scrive continuamente lettere e di cui conserva fotografie esposte in bella vista.

Col passare degli anni, il villaggio diventa una piccola cittadina, che Roy Bean amministra con la violenza insieme ai suoi sceriffi, scelti a loro volta fra alcuni banditi che cercavano rifugio in quelle terre desolate. Mentre si innamora di Maria Elena e tiene in casa un orso da guardia, sfugge agli attentati di vari killer e pistoleri, e riceve la visita dell’avvocato Frank Gass (Roddy McDowall), rappresentante legale di una società dell’Est che reclama la proprietà delle terre. Ma Roy Bean costringe con la forza anche a lui a passare al suo servizio, fino a quando Maria Elena muore nel dare alla luce la loro figlia: il giudice, distrutto dal dolore e avvilito dall’elezione a sindaco di Gass, parte per una destinazione ignota. Tornerà anni dopo e accadranno molte altre cose.

A proposito di New Hollywood, non è un caso che la sceneggiatura del film sia realizzata da John Milius, un altro colosso di quel movimento cinematografico, tanto come regista (Dillinger, Un mercoledì da leoni) quanto come sceneggiatore, da Corvo Rosso non avrai il mio scalpo alla pietra miliare Apocalypse Now. Sotto la lente d’ingrandimento avvincente e quasi grottesca di Milius e Huston finisce un celebre personaggio del West realmente esistito, il giudice Roy Bean (1825 – 1903), che si merita un posto in prima fila accanto ad altri personaggi storici come Wyatt Earp, Doc Holliday e Wild Bill Hickcock. Trattasi, in sostanza, di un fuorilegge che si autoproclamò giudice – “la legge a ovest del Pecos” – amministrando la giustizia con metodi poco ortodossi quali la pistola e la forca e praticando esecuzioni sommarie. Un personaggio che, come gli altri citati, dalla Storia si è trasferito ben presto nel mito e nella leggenda, con tutte le trasformazioni che ne conseguono, poiché in nessun genere come nel western la Storia e la mitologia finiscono col mescolarsi: ma che, a differenza di altri pistoleri o capi indiani, è stato trasposto poche volte al cinema.

L’unico altro precedente fu probabilmente L’uomo del West (1940) di William Wyler, in piena Hollywood classica: se il film con Gary Cooper conserva una più rigorosa attendibilità dell’ambientazione storica, nella lotta fra allevatori e contadini, la messa in scena del sedicente giudice non è tuttavia così diversa tra i due film, nonostante i contesti cinematografici quasi opposti in cui sono nati. Come sarà il Roy Bean di Huston, anche il giudice interpretato da Walter Brennan in The Westerner è una simpatica canaglia, un bizzarro fuorilegge e assassino col quale però il protagonista si ferma volentieri a bere un whisky, e le somiglianze fra i due film sono molteplici: una certa dose di ironia, la venerazione ossessiva del giudice per la cantante Lillie Langtry (a sua volta un personaggio storico) e le insegne del saloon quasi identiche (“Law West of the Pecos”). Tutti elementi che Huston e Milius hanno preso sia dalla Storia sia forse dal film di Wyler, concedendosi ciascuno numerose libertà rispetto ai fatti storici. E infatti, entrambi i film hanno stravolto ad esempio la realtà sulla sua morte, che pare sia avvenuta per cause naturali nel 1903: se Wyler lo fa uccidere in duello da Gary Cooper, Huston lo fa vivere addirittura fino all’epoca del Proibizionismo, facendolo poi scomparire tra le fiamme in un’ultima e leggendaria cavalcata.

John Huston, Paul Newman, John Milius: basterebbe citare questa triade per consegnare L’uomo dai 7 capestri alla storia del cinema. Mentre la Hollywood classica si incontra con quella nuova, la regia robusta e spettacolare di Huston ci regala un western mitologico e “di confine”, costantemente sospeso fra varie dimensioni: fra realtà storica e immaginazione, fra ironia e violenza, fra la nostalgia per il vecchio West e la modernità che avanza, con personaggi sopra le righe e scelte registiche d’avanguardia rispetto ai tempi. Basti pensare, una scena su tutte, a quella con protagonista Bad Bob (Stacy Keach), uno psicopatico pistolero albino e nerovestito che semina il terrore in città per affrontare in duello il giudice, il quale lo uccide alle spalle con un fucile di precisione, scavando nel suo corpo un buco gigante ripreso in primo piano con un effetto cartoonistico: un’immagine quasi identica a quella che Sam Raimi userà parecchi anni dopo nel suo citazionista e spettacolare western Pronti a morire (1995), ed è quanto meno affascinante pensare che Raimi avesse in mente il nostro altrettanto roboante western.

Così come sono indice di una regia per certi versi sperimentale lo sguardo in macchina di alcuni personaggi che fanno da narratore per alcuni momenti, oppure l’uso dei fuochi d’artificio in sovraimpressione quando viene impiccato il fuorilegge balbuziente (Tab Hunter), oppure ancora la messa in scena di personaggi grotteschi (vedasi l’inizio nella bettola con i volti patibolari e la grassona quasi felliniana) e la fusione tra western e gangster-movie nella parte conclusiva. Alla luce di tutto questo, non è azzardato definire L’uomo dai 7 capestri un western d’avanguardia, che propone alcune situazioni tipiche del genere (ma stravolgendole attraverso un gusto per il parossismo) accanto ad altre completamente nuove, in un’armonica mescolanza di generi e linguaggi che andava particolarmente di moda nel western revisionista – basti pensare a film come Uomini e cobra e Il piccolo grande uomo – e che è molto differente dai toni tragici e nichilisti dei precedenti western di Huston. Altre sequenze completamente fuori di testa per un western sono ad esempio quelle con protagonista l’orso, che il giudice adotta da un vagabondo (interpretato dallo stesso John Huston) e che tiene poi in casa come animale da guardia: lo fa ubriacare insieme a lui, gli parla, lo porta in gita con la fidanzata Maria Elena, fino a quando muore per difendere la vita del suo padrone.

Il tema dell’uomo che fonda un proprio regno dal nulla – un po’ il mito del self-made-man americano, ma ribaltato e mostrato nei suoi aspetti più disillusi e meschini – è evidentemente caro sia a Huston, che anni dopo dirigerà qualcosa di simile nell’avventuroso L’uomo che volle farsi re, sia a Milius, in seguito sceneggiatore di Apocalypse Now e regista di Addio al re, pellicole che hanno alcuni aspetti in comune con il nostro film. Verrebbe quasi da dire che il Roy Bean di Paul Newman non è poi così diverso dal Colonnello Kurtz di Marlon Brando – nella mania di grandezza, nell’ossessione per il Potere, nella capacità di fondare un proprio regno – ma forse un paragone del genere va a sfidare troppo gli Dei del cinema di cui si parlava all’inizio. Rimane comunque un evidente ribaltamento del mito americano della Frontiera, che viene demistificata e ridotta a un covo di fuorilegge e individui squallidi dove il più pulito ha la rogna, come si usa dire, dai banditi che vengono impiccati allo stesso Roy Bean e ai suoi sceriffi, fino ai gangster e ai politicanti che rappresentano il nuovo mondo (la modernità) che avanza.

Perché, al di là dell’azione e del divertimento cinefilo, L’uomo dai 7 capestri è un film fondamentale per il revisionismo nel cinema western: un revisionismo che non passa soltanto dalla riabilitazione del popolo indiano in film come Soldato blu e Un uomo chiamato cavallo, ma anche dalla messa in scena di un mondo che sta scomparendo e al quale i protagonisti non vogliono arrendersi, tenendo in alto la bandiera del Mito. Seppure con linguaggi cinematografici diversi, non siamo molto lontani dal precedente capolavoro di John Ford L’uomo che uccise Liberty Valance, in cui il giornalista pronuncia la celebre battuta “Qui siamo nel West, dove se la leggenda diventa realtà, vince la leggenda”. Così come siamo vicini anche al più leggero e ironico La ballata di Cable Hogue di Sam Peckinpah (un altro regista che ha rivoluzionato il cinema western), dove alla fine il protagonista muore schiacciato da un’automobile, come simbolo del progresso che avanza e stritola tutto ciò che lo circonda.

Allo stesso modo, Roy Bean, dopo aver intrapreso un’ultima e memorabile sparatoria nella sua vecchia cittadina (ormai diventata una moderna città) con i suoi vecchi compari, la rade al suolo scatenando incendi nei pozzi petroliferi, per poi scomparire inghiottito dalle fiamme nella sua ultima cavalcata. E qua siamo nel territorio della leggenda pura, poiché la Storia ci insegna che il giudice morì nel 1903, dunque parecchi anni prima del Proibizionismo, che si colloca fra gli anni Venti e Trenta del Novecento. Ma il cinema è il regno del Mito, dunque si rinuncia volentieri all’attendibilità storica per lasciarci cullare dal sogno: e infatti, come ci apostrofa la voce del barista (Ned Beatty) che fa momentaneamente da narratore, lui c’era e sa come sono andati i fatti.

Ancora una volta, Storia e leggenda si mescolano, la mitologia e l’anti-mitologia della Frontiera vanno a braccetto in un’unione che soltanto in apparenza è contrastante, ed è funzionale invece a questa grande epopea. Così come non è casuale la scelta di Ava Gardner – storica attrice degli anni d’oro di Hollywood – nel ruolo significativo di Lillie Langtry, che compare nella conclusione dove la donna visita il vecchio saloon di Roy Bean, ormai trasformato in un mausoleo alla sua memoria, a testimonianza di un Mito che non vuole a nessun costo tramontare.

Dal canto suo, Paul Newman – un altro trait-d'union fra le varie epoche del cinema americano – giganteggia a suo piacimento, sostenuto da una regia di spessore che gli concede un’ampia libertà pur mantenendo il controllo di tutto il film. Star hollywoodiana per eccellenza, simbolo di fascino, carisma e bellezza, incarna qua un personaggio singolare e anti-epico: rozzo e dalla barba incolta – si mette in ghingheri solo in rare occasioni, come quando va a teatro a vedere Miss Langtry, senza però riuscirci e finendo persino derubato da un malvivente (Anthony Zerbe) – è sempre vestito come un pistolero e ha in testa un cappellaccio messicano o una bombetta. Con lui ci sono sempre almeno una pistola e un fucile, come quelli che utilizza nella spettacolare sparatoria iniziale dove fa piazza pulita della gang che infestava il villaggio.

Fra impiccagioni, colpi di pistola e partite a carte, la narrazione mescola violenza e ironia, senza però degenerare mai nella parodia o nella commedia (il rischio c’era, e solo un maestro come Huston poteva evitarlo), e mettendo in scena un West forse più vicino alla realtà rispetto ai duelli classici – la Frontiera era un mondo sporco, dove ci si sparava alle spalle e le questioni venivano risolte senza l’enfasi epica che vediamo in molti film. Durante la vicenda, abbastanza lunga e ricca di episodi (due ore che scorrono piacevolmente), Paul Newman è affiancato da vari comprimari e caratteristi come quelli che abbiamo citato nel corso dell’analisi, oltre agli sceriffi e alle prostitute che diventano le loro mogli, e ai quali va aggiunto il Reverendo interpretato da Anthony Perkins: il quale entra in scena guardando in macchina e parlando allo spettatore, un po’ in stile Nouvelle Vague, per poi dare sepoltura agli uccisi.

La robusta sceneggiatura comprende dialoghi frizzanti, fra il serio e il faceto, dove Newman ha modo di gigioneggiare a suo piacimento, e situazioni grottesche come le scene con l’orso oppure la foto di gruppo con l’uomo impiccato. L’uomo dai 7 capestri possiede una spettacolarità in cui si sente molto la mano di Huston e Milius, sostenuto da una fotografia vivace, un montaggio da manuale e l’ottima colonna sonora del grande Maurice Jarre, in bilico fra il respiro epico e la malinconia. Un po’ come tutto il film, insomma, ben introdotto dall’epigrammatica frase iniziale che recita “Forse non è così che era, è così che doveva essere”. Ancora una volta, nel West e nel western ha vinto il Mito.