In occasione del Festival CinemAfrica, analizziamo Mali Blues. Come illustrato da Martin Scorsese in Dal Mali al Mississippi (2003), lo stato tra Niger e Mauritania è la culla del blues, musica nera per eccellenza, rielaborazione di sonorità e metriche africane per mano degli schiavi deportati su territorio statunitense, che gettarono le basi della resistenza culturale essenza dell’identità afroamericana. Questo genere non ha mai perso il legame con la sua terra d’origine, in cui è stato successivamente recuperato, depurato dalle influenze americane e riarrangiato secondo le tradizioni locali, come nel caso del sottogenere tuareg che da qualche anno gode di un certo successo anche in occidente.
Con Mali Blues, il berlinese Lutz Gregor – già noto per Zanzibar’s First Female Orchestra (2015) – torna a indagare la scena musicale africana odierna, ma da un punto di vista diverso pur se complementare. Se nell’opera precedente l’attenzione era rivolta sulla preservazione della tradizione taarb portata avanti dalla prima orchestra femminile tanzaniana, il nuovo film pone invece l’accento sull’opposizione pacifica attuata da molti musicisti maliani nei confronti della dittatura dell’Isis.
Dal 2012 – da quando i fondamentalisti islamici ha invaso il Mali imponendo il divieto assoluto di fare musica, perché considerata traviante espressione demoniaca – gli artisti locali sono perseguitati e minacciati, costretti a scegliere se continuare o meno la propria attività da fuorilegge. Gregor segue l’esperienza di alcuni resistenti, attraverso i loro ricordi, sogni e canzoni, che si fanno qui e ora vero strumento di protesta e impegno politico. Fatoumata Diawara, Ahmed Ag Kaedi, Bassékou Kouyaté e Master Soumy raccontano le proprie storie, che sono quelle del loro Paese, sottomesso a un governo violento e repressivo, ma che non smette di credere in ideali di libertà e fratellanza di cui la musica è da sempre espressione.
Pur se ammirevole per i racconti presentati, Mali Blues arriva però tardi a trattare il tema già proposto in altre pellicole recenti passate per sale e festival quali Timbuktu (Abderrahmane Sissako, 2014) o They Will Have to Kill Us First: Malian Music in Exile (Johanna Schwartz, 2015). È il grande limite del film, che non riesce a differenziarsi per stile e contenuti dai predecessori, facendosi quindi una sorta di loro ripetizione. Resta però la musica, espressione della commistione tra passato e modernità (il canto è in lingua africana, ma sonorità e strumenti sono tipiche del Novecento occidentale).
Come per il blues dei fratelli americani, la cultura si fa nuovamente forma di ostinata opposizione a un cambiamento imposto e non voluto, bagaglio storico comunitario conosciuto e tramandato, e per questo non cancellabile.